LELLO CERAVOLO LEGGE "PRIMO SOLILOQUIO"

 

 

PRIMO SOLILOQUIO

No. Ti brucerai le ali, acefala farfalla. Un sibilo sinistro spegnerà la tua ricerca se tanto tendi al caldo chiarore del lume. Conosco bene i tuoi voli. Troppo bene. Non ho mai volato, né volo, certo. Allora non ne avevo il tempo e poi mio padre si sarebbe incu­riosito troppo. Ora ne ho smarrito la voglia. Era la Cosa a volarmi dentro. Ancora oggi, benché gli altri si dicano convinti che il tutto sia finito e già da tempo, la Cosa sbatacchia le sue ali ed è da se stessa diversa ogni volta che, chiudendo vecchi labirinti, la costringo uguale. La Cosa non mi lascia neppure qui in collina, dove gioco le mie, sempre più numerose, ore d’ozio. Fui iniziato tardi alla collina. Mio padre aveva già rinunciato a incuriosirsi di me. Già gli altri si dicevano con­vinti che il tutto era finito. Prima, in famiglia, si dlceva solo di mare, di campagna. Il lago era la domenica e soprattutto il Primo Maggio. “Meglio andare a prende­re il sole e mangiare il pesce sotto qualche bel berceau, che starsene qui, tra i cortei “, diceva mio padre, quando ancora aveva voglia di incuriosirsi di me. La montagna era Brunate, poco più di lago: l'escursione. La Cosa, una volta, prese a volarmi dentro, mentre sussultavo sulla funicolare. Dissero: indigestione. Il mare era la Versilia. Per i primi anni fu un carnaio in cui era difficile districarsi. Poi furono gli amori rubati di fretta tra i pini, prima che arrivasse il guardiaboschi in maniche di cami­cia e con gli stivali in mano. La campagna erano trecento metri quadrati, intafanati, in un taglio sulla dritta, da acque melmose d'un torrente stanco, che a volte, ribellandosi inconscio alla sua natura, allagava i campi dei nonni materni. Quei polesini famigliari erano grandi occasioni di gioco. Qualche rana inrospata se ne sortiva sperdu­ta. Erano le cacce, le avventure. Alla collina arrivai se­guendo fissi itinerari famigliari di Carla. Avevo ripreso a scrivere. Scrivevo per la radio e tiravo avanti con qual­che lezione quando mi prese la collina. Qui, in collina, quando la Cosa sbatacchia le ali, ali ben più forti delle tue, atropo lunaria, mi fermo arente a quel muro, sotto il frammento di falsa pittura votiva, e mi lascio, trasluci­do fare da lei. Il terreno, mosso tra selvatico e coltivato, tagliato come è di spacco da certi sentieri imboscati, obbliga il passo a continui giochi di leva sulle ginocchia. Prima quando ancora la Cosa se ne stava quattata, avevo sempre temuto la collina. Temevo la collina, d'altra par­te mai vissuta, non tanto per quegli sporadici smottamenti da plastico giocattolo, quanto per gli odori, che la col­lina emana da sé in ogni sterpo: il buono del pane e del vino, il buono della lepre imbarolata in vino locale asprigno e non fatto. Un vigile cervello aveva sempre re­spinto simili odori, gli odori erano Pavese e le sue colline, i suoi odori di buono croccante, le sue bonarie pac­che sulle spalle, i suoi compagni di tavolata e gli immancabili ricordi di liceo quando, in un gran guignol di morti, se ne andavano gli occhi delle amate; un paio ogni due ore. Era il sinonimo colto Pavese-collina che temevo quando la collina era solo lirica e mio padre ancora si incurio­siva un poco dietro quel figlio, che ne gli studi riusciva bene. Poi fu il Sessantotto. Mio padre smise di incurio­sirsi. Conobbi il nudo del piede nell'amore. Poi fu il resto. Nel resto ci fu anche la collina. Qui, dopo che gli altri si dicevano convinti che il tutto fosse e già da tempo finito inìziai con la Cosa, che dentro volava, a vivere a memoria. No. Non di ricordi vivevo, né vivo. Certo quelli mi prendono, nascosti magari nello scric­chiolìo del parquet urbano di Carla. Mi procurano a volte anche una gioia ineffabile portandomi oggetti e persone lontane. Il ricordo, tuttavia, porta soprattutto al­tri ricordi. Allora la gioia ineffabile si fa vizio. No. Non di ricordi ma a memoria puntualmente, scrupolosamente vivendo le vita dell'altro da me.