L'UOMO CHE SAPEVA DI GUERRA

 

Nonostante fossero passati alcuni anni, la guerra, da quelle parti, la si sentiva ancora nel naso. Nonostante gli sforzi, più o meno interessati, di potentati stranieri, la guerra era nell'aria. L'uomo andando giù verso il ponte, sentiva quell'odore forte di guerra. L’uomo, che andava con passo spedito verso la base dell’Unità di Pace, aveva trascorso otto anni in quei territori. Otto anni eppure non ci aveva ancora fatto l'abitudine a quell'aria di guerra, che entrava fastidiosa nelle narici. Otto anni, per scelta, senza tornare al proprio Paese.

Anche dopo aver fatto sesso, scevro da tutto ciò che non fosse puro e meccanico sesso, con qualche ragazza del posto, magari per un paio di calze di naylon, l'uomo si sentiva rodere l'interno del naso, fin su al cervello, dall'odore di guerra.

Per il gran caldo un vecchio, in fondo alla strada, versava sul muso di un cane l'acqua di una brocca. Anche quel gesto di altruismo non diminuì all'uomo il fastidioso odore di guera nel naso. Forse per il grande caldo, ma quell'odore se lo sentiva anche addosso, sulla pelle, nella pelle e ancora più dentro.

 Appena giunto alla base l’Unità di Pace, l'uomo si diresse dritto verso la propria tenda. Non incontrò nessuno. A quell'ora i suoi compagni o erano a bersi birra, ovviamente analcoolica, ma soprattutto insapore o a fare sesso dietro la tenda del venditore di carni. Più che fare sesso, e non ci riusciva proprio a chiamarlo con altro nome, avrebbe desiderato bersi qualcosa di forte, di alcoolico; impossibile trovare alcoolici da quelle parti. L'uomo, per qualche secondo o magari qualcosa di più, si ritrovò a pensare che forse una sorsata di grappa avrebbe attenuato, almeno di dentro, l'odore di  guerra: odore urticante benché la guerra stessa fosse ormai lontana nel tempo.

Una volta nella tenda l'uomo si tolse la camicia. L'annusò, l'indescrivibile odore di guerra superava di gran lunga il puzzo del sudore. S'annusò le braccia, il petto: tutto odorava di guerra. L'uomo si denudò. Cercò nella borsa sotto la branda il vecchio telo militare, quello che gli avevano dato in dotazione quando arrivò al campo, parecchi anni prima, a guerra appena finita. L'uomo si era sempre chiesto a chi mai fosse appartenuto quel telo  e semmai fosse servito a qualcosa di particolare.    Per via del puzzo che emanava, nonostante tutti i lavaggi subiti, l'uomo fu sempre convinto che fosse servito ad avvolgere cadaveri. Il telo gli sarebbe servito per coprirsi e, una volta fatta la doccia, nella baracca malmessa al centro del campo dell’Unità, per asciugarsi e ancora per coprirsi.

 

Ritornato nella propria tenda, buttò a terra e allontanò con un calcio il telo militare fradicio. Da sotto la branda estrasse una borsa in cuoio. Con una mano reggeva la borsa, con l'altra le faceva spazio sulla sedia che faceva da comodino, l'unica comodità della tenda. Prima di posare la borsa allontanò la radiosveglia e la pistola in dotazione a tutti i membri dell'Unità di Pace.

Aperta la borsa ne estrasse un sacchetto di plastica e si mise a sedere sul bordo della branda; dal sacchetto cavò fuori un boccettino, lo stappò velocemente e se lo portò  al naso per annusarlo. L'uomo non perse tempo a versare tutto il profumo contenuto nel boccettino direttamente sul suo corpo  nudo; su tutto il corpo. Un intenso, previsto,  bruciore lo prese lì in mezzo alle cosce.

L'uomo si rese conto che tutto quel profumo aveva causato due guasti irreparabili: non avrebbe più avuto profumo per chissà quanto e soprattutto che puzzava come una di quelle vecchie puttane dal sorriso gentile che passeggiavano in via Lazzaretto a Milano e nella sua adolescenza.

L'uomo, prima di rivestirsi, si riannusò tutto, l'odore di guerra si era già mischiato al puzzo del profumo e già lo stava sopraffacendo. In quel momento, per la prima volta da quando era finito lì volontario alla base di quella maledetta Unità di Pace con i cecchini che sparavano ancora e con i  cimiteri che s’infioravano accanto alle altalene dei bimbi, questi nati durante o dopo la guerra non avevano mai appreso l’arte del sorridere, l'uomo ebbe voglia pressante di tornare in patria.

Facile pensarlo, molto difficile da realizzarlo nel breve. Aveva appena firmato un documento, che lo impegnava in quei territori per altri quattro anni. Quattro anni durante i quali l'odore di guerra avrebbe continuato a entrargli nel naso, nel cervello e dentro il corpo, più dentro.

Sì rivestì di fretta, poi, seduto di nuovo sulla branda, cominciò a fissare la pistola. Aveva sempre rifiutato l'uso dell'arma e per maggior sua sicurezza la teneva scarica, ma in quell’occasione comprese come fosse proprio la pistola l’unico mezzo per farsi rispedire subito a casa.

Dalla borsa di cuoio estrasse la scatolina dei proiettili. Caricò la pistola. Cominciò a pensare come sarebbe potuta tornargli utile per far ritorno a casa e liberarsi di quell'odore di guerra, che lo perseguitava. La prima idea che saltò in mente all'uomo fu quella di uscire per strada ed esplodere tutti i colpi in sequenza nei culi dei cani randagi che a quell'ora erano soliti ruzzare nelle vicinanze del campo. L'avrebbero ritenuto pazzo e l'avrebbero di certo rispedito a casa in barba di qualsiasi fottutissimo documento. Fu la prima e l'unica idea che venne in mente all'uomo. Che cazzo c'entravano i culi dei cani vicino all'accampamento. Magari i superiori avrebbero pensato a quel gesto per liberarsi dello stress di sentirsi inutile in quel territorio e gli avrebbero affidato un nuovo incarico di maggior impegno. Idea dunque scartata.

L'uomo si levò in piedi, tolse tutti i proiettili, meno uno, dal caricatore della pistola. Durante il cammino avrebbe trovato la soluzione per realizzare il suo improvviso e improcrastinabile desiderio. Si sa che il passeggio, come la notte, porta consiglio. L'uomo si mise la pistola, dopo essersi assicurato con estrema attenzione che la sicura fosse ben salda, nella tasca posteriore dei pantaloni e uscì all’aperto.

L'uomo si avviò verso il centro, quello che era rimasto del centro, là verso il vecchio ponte abbattuto, che stava lì con i suoi monconi umidi protesi dall'acqua come fosse in preghiera verso uno sconosciuto dio tutto suo… come ci fosse bisogno di altre divinità in quei luoghi che da secoli, in Europa,  avevano sempre detenuto il record di densità di confessioni religiose.

 

Nonostante le ombre del tramonto fossero già lunghe, il caldo non concedeva requie a umani e animali. L'uomo incontrò la vecchia Irina, serbi e croati le avevano ucciso il marito e sepolto in qualche fossa comune, su a Nord, i sette figli maschi. La poca frutta che la vecchia Irina commerciava a terra, sul marciapiede, sopra una foglio di carta gialla, era tutta raggrinzita per il caldo. Alcuni componenti del’Unità di Pace, forse francesi, bevevano birraccia di contrabbando ai tavoli dell'osteria lungo il fiume, nei pressi del ponte diroccato. L'uomo tirò dritto. Superata la piccola vecchia moschea, l'uomo voltò a destra verso il mercato coperto. Un vecchio, lì dopo la guerra erano rimasti solo vecchi, donne e bambini, stava tutto preso ad abbassare von gran fatica una rumorosissima serranda.

L'uomo affrettò al passo. Poco dopo si trovò dinanzi alla macelleria. Il proprietario, il vecchio Nahim, stava sull'uscio con in mano la sbarra per chiudere l'antone. L'uomo non perse tempo, infilò la mano in tasca ed estrasse una gran manciata di marchi. Nahim afferrò subito il denaro, si scostò dall'uscio, mise una mano sulla spalla dell'uomo, gli consegnò la sbarra per l'antone e qualcos’altro di piccolo sussurrandogli qualcosa all'orecchio. L'uomo varcò la soglia, mentre il vecchio Nahim, palpeggiando il denaro si allontanò visibilmente allegro. L'uomo depose la sbarra per l'antone, si chiuse la porta alle spalle girando velocemente la chiave, appena ricevuta dal vecchio macellaio, nella toppa. Nel sussurro di Nahim l'uomo era riuscito a percepire che dietro la tenda, al di là del banco dove, come sempre, avrebbe potuto vedere carne nera punteggiata da mosche, avrebbe trovato Irsizta, forse la più bella tra le ragazze offerte dal vecchio porco di Nahim.

Irsizta era, oltre a essere assai bella,  l'unica delle señorine che parlasse e capisse l'italiano. Durante la guerra era stata curata in Italia, poco più che bambina, da una brutta ferita che un proiettile vagante le aveva procurato all'addome. L'uomo varcò la tenda, Irsitza s'alzò dalla branda e gli sorrise, la ragazza sapeva benissimo che l'uomo che le stava davanti le avrebbe chiesto solo sesso e le avrebbe dato ugualmente solo sesso. Irsitza si fece incontro  all'uomo, gli si inginocchiò davanti e immediatamente col viso andò a cercargli il pene  all'altezza della patta ancora chiusa. Le mani di Irsitza  cominciarono simmetricamente ad accarezzare i polpacci dell'uomo, poi salì agli incavi delle ginocchia, poi più su... quando giunse alle natiche fece un balzo all'indietrò, si rizzò, e tentò di nascondersi sotto la branda. In quel momento l'uomo comprese che la pistola sarebbe stata davvero il suo lasciapassare liberatorio per essere rispedito a casa.

 

Era un'afosa, un'afosissima estate milanese. Vecchi e bambini si indaffaravano per cercar rinfresco nell'ombra affollata dei rari parchi della città. L'uomo procedeva a fatica nella cerca d'una panchina ombreggiata e vuota. Sovente si fermava in mezzo allo sterrato del parco, indeciso e un po' traballante. Inspirava profondamente. Dava l'idea d'essere un uomo non molto in salute. Una donna, che spingeva contro il caldo una carrozzina, gli si avvicinò e gli chiese se avesse bisogno di qualcosa, se si sentisse bene. L'uomo sorridendo la rassicurò e  riprese il suo cammino dondolante sempre intento nella cerca d'una panchina ombreggiata e vuota. Alla fine trovò la panchina che ricercava, tuttavia si fermò, ancora,  a qualche metro da questa, inspirò profondamente e poi si annusò le mani, le braccia, fin su alle spalle. Sembrò poi tirare un sospiro di sollievo, ancora una volta aveva  ricevuto la conferma che l'odore di guerra l'aveva lasciato definitivamente. L'uomo, dopo due passi quasi  incespicati, si mise a sedere. Per un po' osservò il viavai colorato di tricicli, biciclette e carrozzine. I cani, lingua penzoloni, proseguivano a stento contro il muro del caldo al guinzaglio dei loro padroni. Nessun vecchio a bagnar loro il muso versando acqua da una brocca. Quel lampo, quell'immagine del vecchio che, quasi per pietà o solidarietà, versava acqua sul muso del suo cane accaldato lo portò d'improvviso addietro. L'uomo tastò le tasche dei pantaloni, da quella di destra e posteriore estrasse un piccolo block notes e subito dopo una penna dal taschino sinistro della camicia sportiva azzurra. Macchie scure di sudore alle ascelle erano un'altro inconfutabile segno, un marchio,  del gran caldo di quei giorni.

L'uomo sembrò giochicchiare con i fogli del taccuino, sembrava voler provare anche la penna con la quale tracciò linee spezzate quasi a formare un labirinto. Fu forse da quel labirinto appena disegnato, quasi svogliatamente,  che l'uomo trasse l'impulso di scrivere. Con  una grafia minutissima, quasi fossero segni volanti di una vecchia e scordata stenografia, l'uomo cominciò ad annotare i propri ricordi di quando e, soprattutto, come riuscì a farsi rispedire in Italia.

 

Allora la prima preoccupazione fu quella di rassicurare  Irsitza che lui non le avrebbe fatto nulla di male, tanto meno ammazzarla. Irsitza rimaneva, il terrore negli occhi, mezza fuori e mezza sotto la branda. Ci mise un bel po' per convincerla ad abbandonare quella sua posizione da struzzo e  uscire da sotto la branda. Momento risolutore di tutta quella pratica fu l'aver deciso di porre la pistola lontano da sé, al di là della tenda, sul banco accanto alla carne nera tempestata dalle mosche. Tranquillizzata,  Irsitza comprese che quel giorno non avrebbe offerto e ricevuto sesso, aveva compreso che lui aveva in mente ben altro.

Irsitza si tirò d'un lato della branda facendogli posto. Lui le mise un braccio sulla spalla, un gesto quasi paterno, insolito per lui,  e cominciò a raccontargli della faccenda dell'odore di guerra che non lasciandolo mai rischiava di farlo impazzire. Raccontò del suo desiderio di essere rimpatriato al più presto nonostante quel fottutissimo pezzo di carta che aveva firmato pochi giorni prima.

Irsitza si sforzava di capire, ma faceva fatica. Ancor di più ne fece, di fatica, quando lui iniziò  a esporre il suo piano per tornare in patria, nonostante lui esponesse con calma e soprattutto gran precisione nei dettagli. Quando ebbe terminato di esporre il suo piano, che era nato lì all'improvviso, dietro la tenda del macellaio ruffiano, quando Irsitza si era accorta della pistola che lui portava nella tasca posteriore dei pantaloni, le sfiorò, quasi un grazie sincero anticipato, le guance con un bacio. Lui si alzò dalla branda, oltrepassò la tenda, prese la pistola dal banco su cui la carne nera continuava a essere martoriata dalle mosche.

Fuori le ombre si erano trasformate in buio. Riattraversò la tenda e dopo aver tolto dalla pistola l’unico colpo che vi aveva lasciato, invitò  Irsitza ad avvicinarglisi.  Irsitza tremò e si spaventò di nuovo quando si trovò in mano la pistola.

Lui che non aveva mai sparato si accinse a insegnare come prendere la mira e premere il grilletto alla giovane donna. Quando  Irsitza sembrò aver capito e soprattutto sembrò aver superato l'istintiva riluttanza di aiutarlo a rientrare in patria, entrambi oltrepassarono la tenda, e senza badare ai giochi delle mosche attorno alla carne nera, si diressero al piccolo lavabo dove accuratamente lavarono la pistola per togliere qualsiasi impronta, anche se non sarebbe servito, pensava lui. Con fazzoletti di carta asciugarono la pistola. Poi usando altri fazzoletti di carta lui caricò l'arma col solo proiettile che si era portato dal campo dell’Unità. Alla fine porse l'arma a  Irsitza. Si avviarono verso l'uscita dalla macelleria, bordello di miserie. Lui presse la sbarra e appena usciti serrò l'antone assicurando la sbarra ai lucchetti degli infissi.  Una volta nella via, s'incamminarono sottobraccio, quasi con tenerezza.

 

Irsitza giunse trafelata, stanca e spaventata al piccolo ospedale di campo della base dell’Unità di Pace. Tirava, con le stanghe che si era legate in vita, il carretto a due ruote del macellaio suo magnaccia. Sul carretto stava lui, tibia e perone fracassati da un colpo di pistola sparato da qualche bastardo. Lui perdeva molto sangue e tutte le mosche di quel dannato paese gli stavano addosso.

Irsitza disse di aver udito un colpo di pistola, dietro l'angolo del negozio e di aver trovato lì il corpo di quello sconosciuto. No, no mai stato suo cliente. Proprio uno sconosciuto. Nonostante il dolore, accidenti l'aveva colpito proprio bene la señorina, lui si congratulava con se stesso per l'idea felice che l'aveva colpito nei primi approcci di sesso dietro la tenda del macellaio.  Irsitza, come promesso, non disse nulla né del colpo esploso su comando, né, soprattutto, non disse nulla dell'aver gettato la pistola nel fiume proprio là dove i monconi del vecchio ponte sembravano ergersi a pregare qualche divinità sconosciuta.

Nell'ospedale militare gli estrassero il proiettile, gli pulirono alla meglio la ferita metre un infermiere di campo, che in Spagna, da dove veniva, era ingegnere, mescolava una poltiglia bianca in una bacinella scrostata. Quando il gesso fu pronto cominciarono a impastargli tibia e perone. Lui capì subito che una cosa fosse ingessare e un'altra impastare gesso un po' a caso attorno a una doppia frattura, ma ciò che contava era tornare al più presto in patria, lontano da quell'odore di guerra, che da troppi anni gli entrava nel naso e  in tutto il corpo, anche di dentro, molto di dentro.

Irsitza, nel frattempo, era stata lì a persuadere il macellaio magnaccia, venuto a reclamare il suo carretto, che tutto era stato fatto in modo perfetto e che nessuno sarebbe mai risalito a lui e neppure ai traffici dietro la tenda, anche se questi ultimi erano noti a tutti, anche quelli che venivano da fuori il martedì di mercato. Quando il vecchio macellaio se ne andò portandosi via carretto, sangue e mosche,  Irsitza chiese dell'uomo che aveva condotto ferito al campo, le indicarono l'ultima branda di uno stretto corridoio.  Irsitza passò quattro brande dove tiravano gli ultimi, forse uno era già morto, la bocca aperta gli occhi fissi spalancati, quattro forse suoi connazionali. Nell'ultima branda giaceva lui, nudo dalla cintola in giù, con quel gambone tenuto in aria da una pila di vecchi giornali.  Irsitza si avvicinò. Lui le sorrise. Lei, istintivamente, gli pose una mano sul sesso molle tra le cosce. Lui le scostò la mano, l'attirò a sé e la bacio con forza e passione nella bocca. Le lingue si inseguirono e giocarono a lungo tra di loro. Poi l'infermiere spagnolo invitò  Irsitza ad allontanarsi. Fu il primo bacio, da quando era in quei territori maledetti dall'insistente odore di guerrra, che lui diede a una donna, forse non solo per sesso.

 

L'uomo seduto sulla panchina in ombra del parco staccò la penna dal foglio del block notes, per poi riavvicinarla al foglio e circondare quelle ultime parole “non solo per sesso”, forse fu un caso l'aver dimenticato di inserire nel circondato anche la parola “forse”. L'uomo ripose la penna nel taschino della camicia sempre più sudata e il taccuino nella tasca dei pantaloni. Era trascorso più di un'ora da quando aveva iniziato a scrivere i suoi ricordi. Riprese a osservare il viavai colorato di tricicli, biciclette e carrozzine. I cani, lingua penzoloni, che proseguivano ancora  più a a stento di prima contro il muro, ormai ispessito, del caldo al guinzaglio dei loro padroni. Nessun vecchio a bagnar loro il muso versando acqua da una brocca. L'immagine del vecchio che versava acqua sul muso del cane per procuragli rinfresco lo riportò di nuovo in quelle terre in cui, fino a tre anni addietro, l'aveva continuamente insidiato l'odore di guerra.

Un odore indefinito, ma acre, fastidioso che cresceva ogni giorno di più e da cui non riusciva a liberasi pur versandosi addosso boccetti di profumo, tanto da sembrare una di quelle vecchie puttane dal sorriso gentile che passeggiavano in via Lazzaretto a Milano e nella sua adolescenza. Un odore che a volte gli sembrava perfino che fosse emanato da lui stesso. L'immagine di  Irsitza gli si irradiò davanti, all'orizzonte in quel tremolio acquoso in cui si gioca l'afa nei giorni più caldi.  Irsitza che scopre la pistola.  Irsitza che fa lo struzzo, mezza fuori e mezza dentro sotto la branda.  Irsitza che impugna la pistola.  Irsitza che mira e spara.  Irsitza che lo carica sul carretto del vecchio macellaio magnaccia.  Irsitza che getta la pistola nel fiume  proprio là dove i monconi del vecchio ponte sembravano ergersi a pregare qualche divinità sconosciuta. Irsitza che lo porta all'ospedale di campo. Irsitza che, istintivamente, gli pone una mano sul sesso molle tra le cosce. Irsitza che sta al gioco delle lingue che si inseguono nelle bocche. Lì seduto sulla panchina all'ombra nell'afa del parco, Irsitza gli appare come eroina di un film, di seguito senza interruzioni. Fa caldo, troppo caldo, l'uomo suda e forse non solo per il caldo, il troppo caldo.

 

L'uomo avanza zoppicando vistosamente per le vie della città in cui per anni aveva subito l'odore di guerra, che gli entrava nel naso e in tutto il corpo. Nonostante tre operazioni subite a Milano, la frattura non si è mai ricomposta del tutto,   accidenti l'aveva colpito proprio bene la señorina. L'uomo, appena tornato in patria cominciò a scrivere a Irsitza. Dapprima indirizzava la posta alla macelleria del vecchio. Irsitza rispondeva con cartoline, forse per timore di commettere troppi errori in una lingua non sua nello scrivere a lungo in una lettera. Irsitza riuscì però a far sapere all'uomo che aveva lasciato la macelleria e il lavoro, per fare l'infermiera nell'ospedale di campo della base dell’Unità di Pace. L'uomo allora indirizzò la sue lettere all'ospedale di campo.

Dopo l'invio di ogni lettera, in cui rimaneva sempre sul vago e di sé raccontava  soltanto delle operazioni e dell'essersi completamente liberato dalla persecuzione dell'odore di guerra, cresceva sempre più la voglia di incontrarla. Una volta superò ogni reticenza e glielo scrisse, la pregava di raggiungerlo in Italia, le avrebbe pagato il viaggio e si sarebbe preso cura di lei durante il suo soggiorno. Irsitza, pur ammettendo che anche lei avrebbe desiderato vederlo, rispose laconicamente “non posso, sono infermiera”.

L'uomo zoppica vistosamente sul lastricato ricostruito lungo il fiume, verso il ponte. Il ponte lo hanno ricostruito, le pietre nuove o lavate gli conferiscono qualcosa di falso, di innaturale. L'uomo continua a zoppicare, ogni tanto si ferma per riposare, ma soprattutto per inspirare profondamente e annusarsi mani, braccia, spalle. Dell'odore di guerra nessuna traccia.

A una svolta quasi inciampa, col suo passo maldestro, nel  tavolino della vecchia Irina, alla quale serbi e croati le avevano ucciso il marito e sepolto in qualche fossa comune, su a Nord, i sette figli maschi. Accanto alla frutta, due mazzetti di fiori. L'uomo li acquista entrambi e, senza minimamente trattare il prezzo, mette nelle mani della vecchia Irina una banconota di dieci euri. Irina saluta sorridente.

Il campo base dell’Unità di Pace è sempre al suo posto. Fose tenuto un po' meglio: al posto delle tende baracche colorate, addirittura tendine alle finestre. Di militari più nessuna traccia, tutti volontari civili, molti del luogo. L'ospedale di campo è ospitato da una grande tensostruttura candida. La luna rossa e la croce rossa abbinate sui fianchi e sul telo superiore. Irsitza è splendida nella sua divisa da infermiera. Capo infermiera, precisa la donna. Tanto lavoro, sempre di più, bambini che saltano all'aria giocando sulle colline della città, maledette caramelle esplosive. Irsitza scompare nello spogliatoio. L'uomo confuso nel vederla e nel sentirla parlare del suo ruolo d'infermiera capo, si è tenuto i fiori in mano. Irsitza compare in abiti civili, è ancora più bella. L'uomo le dà i fiori, lei lo bacia. Si baciano. Intrecciano le dita delle mani. Lei ha una baracca, tutta sua, lì vicino.