Il Robarco

Bucco stava seduto, nel torrido d’un’estate dei primi anni del secolo, su una bitta di un porto al di là dell’Adriatico. Poteva essere il porto di Spalato, o Split che dir si voglia, anzi era di certo Spalato, o Split, ma a Bucco in quel torrido che levava forze e repiro, a quell’ora e in quel luogo poco importava dove si trovasse e tanto meno importava della disputa sul nome, una disputa che portava a guerre di tanto prima che lui fosse nato. Di ben altre guerre Bucco era consapevole, di quelle vissute una decina d’anni alle spalle e nelle cui macerie aveva camminato per mesi e ancora vi aveva camminato il giorno prima e la mattina del giorno stesso, perché le macerie causate da una guerra sono infinite di fuori e di dentro. Bucco camminò a lungo tra le macerie lasciate dalla guerra scoppiata dopo la caduta del comunismo in tutto il territorio chiamato un tempo Jugoslavia. Tra quelle macerie era stato mandato per aiutare a ricostruire o a inventare. Bucco fu mandato in Bosnia, in varie città della Bosnia: tutto da ritirar su, compreso lo Stari Most di Mostar, il ponte abbattuto a cannonate dai Croati nel millenovecentonovantatré.

A Bucco in quel torrido che levava forze e respiro, a quell’ora e in quel momento seduto su una bitta di un porto al di là dell’Adriatico, di certo a Spalato, poco importava anche di quelle guerre passate da poco e di cui sentiva il puzzo sulla pelle. Bucco era stato lasciato solo dagli altri connazionali cooperatori di pace, che, in attesa dell’imbarco sulla nave, che li avrebbe riportati ad Ancona, si erano dispersi tra le vie strette del fu maestoso e mastodontico Palazzo di Diocleziano in cui si erano incuneate le raffinate architetture della Venezia predatrice repubblicana. A lui, che la visita di Spalato, o Split che dir si voglia, aveva consumato più volte, piaceva restar solo, seduto su di una bitta, a scrutare, in una impalpabile nebbiolina di calore, in fondo all’orizzonte del mare la nave che l’avrebbe portato a casa.

Per un attimo, un attimo soltanto, la stanchezza prese il sopravvento e Bucco serrò le palpebre. Nessuno, tanto meno lui, fu in grado di percepire quanto fosse durato quell’attimo.

Il suono di una sirena, mai udito prima d’allora, lo svegliò e subito s’accorse che, due o tre bitte in là da dove se ne stava seduto, aveva appena attraccato il Robarco. Una gran nave di carta e di pensieri, insomma una nave letteraria, che lui stesso aveva varato anni addietro in uno dei tanti inizi di storie mai concluse. Bucco aveva imposto a quella fantasiosa nave l’altisonante nome di Robarco, una strampalata crasi tra il nome di Roberto,  padre della Donna Dalle Caviglie Grosse, che un tempo si accompagnava nel sesso a lui, e quello di Marco, di cui Bucco era figlio.

In quella nave ci aveva stipato di tutto: versi, inizi di romanzi, di insensate commediole e di inutili drammoni, nella sua testa, nazional popolari. Ci aveva anche inserito i personaggi e le persone che avevano camminato con lui per tanti e tanti anni e tante storie. Negli anni il Robarco si era trasformato in un’imponente nave traghetto: nella fantasia costano nulla simili radicali mutamenti. Bucco s’apprestò a salire a bordo dalla poppa. Gli si fece subito incontro il Comandante Dagli Occhiali Neri, forse dietro quelle lenti scure si celava il colore degli occhi che avrebbe permesso a Bucco di recuperare a tutto tondo quell’uomo, figura che di certo lui stesso aveva nominato comandante del Robarco. Tutta la pancia del traghetto era occupata da pesanti, coloratissimi, tir di un circo. Tra un tir e l’altro alcune gabbie, una arente all’altra, messe lì giù dai mezzi per concedere boccate d’aria agli animali in esse rinchiusi. Bucco trovò ben presto alcune scimmie verdi in gabbie d’ottone lucente, La Ragazza Dalla Treccia Verde e dai seni minuti le accarezzava dolcemente sui capi attraverso le sbarre delle gabbie. Incrociato la sguardo con quello di Bucco ritrasse la mano dalla gabbia d’ottone lucente, abbassò gli occhi e non disse nulla, neppure di un mozzo salpato per chissà dove dopo averla goduta  per tre lune. Bucco si era messo di buzzo buono a cercare la Donna Dalle Caviglie Grosse, desiderava accompagnarsi a lei nuovamente nel sesso. Salì e discese scale e scalette tra un ponte e l’altro e reggendosi stretto stretto alla balaustra della murata di destra giunse fino alla prua: della Donna Dalle Caviglie Grosse nessuna parvenza. Bucco era sicuro, strasicuro di averla posta lì sul Robarco e del resto dove altrimenti visto che il nome della nave letteraria aveva la prima parte del nome che ricordava proprio quello di suo padre, Roberto. Se la girò tutta in lungo e in largo quella sua creatura, ma della Donna Dalle Caviglie Grosse, nessuna traccia, allora decise di intrattenersi sul ponte di coperta, ritto all’in piedi, inspirò profondamente come volesse tirare a sé tutta l’aria ventosa d’intorno. In quel momento si ritrovò a pensare che quell’inspirazione profonda gli avrebbe portato prima nel naso, e poi giù nel corpo fino al sesso, il profumo di quella donna alla quale s’accompagnò nel sesso per trentotto lune giuste giuste. Provò a inspirare più volte, sempre con maggiore intensità, ma il profumo di quella Donna Dalle Caviglie Grosse non giunse mai al suo naso, e tanto meno al sesso. Bucco allora si avvicinò al monte di sedie sdraio accaticchiate l’una all’altra alla murata di sinistra, ne prese, con qualche fatica, una, l’aprì e vi si stese a leggere un libro tutto suo privo di pagine, cominciò umettandosi indice e pollice sulla lingua a sfogliare il suo immaginario libro come si ricordò aver visto fare all’Uomo Dal Basco In Testa incontrato in uno di quei borghi di collina dove ciò che maggiormente accomuna gli uni con gli altri anziani è quell’abitudine a rimanere, come fossero in costante attesa di chissà che, nell’ombra degli usci socchiusi sulla via. Accuratamente cercò in quel libro del tutto immaginario qualche graffio, qualche intreccio invisibile formato di righe sbilenche altrettanto invisibili, che fossero in grado di indicare, se non proprio la presenza, almeno qualche segno del passaggio della Donna Dalle Caviglie Grosse: nulla. Bucco s’accorse di trovarsi in una di quelle situazioni balorde in cui ci si sembra perdersi non una, ma due volte e forse più e ben presto fu consapevole di come fosse già in lui il torpore delle delusioni amorose, cioè si trovasse in quella sorta di equilibrio precario tra l’essere cosciente dell’esistere e del ricordare e l’essere cosciente del non esistere e dello smemorarsi. Tra l’essere cosciente dell’esistere e del ricordare e l’essere cosciente del non esistere e dello smemorarsi vi può essere, a volte, non sempre, una fenditura, una piccola ulcerazione attraverso la quale s’avvicinano, s’appressano personaggi, incontrati davvero e in carne e ossa, che, smarrita tutta la corposità dell’esistere, s’affacciano, si intrudono con l’inconsistenza del non esistere. Bucco, certo di trovarsi, se non proprio al centro, molto molto vicino a una di quelle situazioni balorde in cui ci si sembra perdersi non una, ma due volte e forse più, ben presto fu consapevole di come fosse già in lui il torpore delle delusioni amorose, e cercò di portarsi lontano dai tempi trascorsi in un succedersi confuso tra amori e disamori. Appallottolò l’impalpabile libro e lo gettò poco lontano dalla sedia sdraio dove riposava nel suo piroscafo di carta e scrittura. Da quella pallina impalpabile e del tutto immaginaria gettata a terra accanto alla sdraio, proprio nel mentre tutto il suo corpo sembrava essersi messo a galleggiare e forse sarebbe naufragato con tutto il suo piroscafo letterario, sortì levandosi un profumo insistito e insistente, forse più un odore, che lo ridestò dal torpore e immediatamente dall’impiantito del ponte, tra il disconnesso delle vecchie assi, prese corpo una mano apparentemente pesante di donna. A Bucco parve di scorgere unghie lunghe e laccate con i colori della bandiera spagnola. Fu un attimo e la mano con le unghie laccate si tirò appresso l’ingombrante, enorme figura sorridente delle Donna Colonnello Spagnolo, che gli era capitato sovente di incontrare, incrociare, a volte urtare, nell’ampio e rumoroso locale dell’hotel, in cui erano riuniti tutti i collaboratori di pace, militari o no che fossero, di stanza a Mostar. Quell’hotel, l’unico rimasto, con qualche dignità, in piedi, sorgeva poco distante dai monconi dello Stari Most, il ponte abbattuto a cannonate dai Croati nel millenovecentonovantatré e nel suo ampio e rumoroso locale, a pian terreno, i collaboratori di pace di ogni Paese, militari o no che fossero, erano soliti consumare la colazione. Delle persone, militari o civili che fossero, che al mattino sul presto scendevano a pian terreno nell’ampio e rumoroso locale adibito a sala per colazioni, una delle più osservate, forse la più osservata di tutti, era proprio la Donna Colonnello Spagnolo. Nessuno degli ospiti di quell’hotel poteva negare di aver osservato svariate volte la donna. Questa s’imponeva alla vista di tutti di certo non  per la sua bellezza, un fisico possente, meglio dire enorme, anche lei con le caviglie grosse. Non veniva osservata per le sue  lunghe unghie smaltate con i colori della bandiera di Spagna e neppure per quelle innumerevoli piastrine colorate, un colore per ogni campagna militare fatta in ogni parte del mondo, che le decoravano la mammella di sinistra, debordante come quella di destra. Veniva osservata soprattutto per il suo modo di fare e d’essere. Sbrigativa lo era di certo, lo si capiva bene nel suo dare ordini ai sottoposti, netti e diretti quasi fossero proiettili sparati dal gran revolver che le scendeva ai fianchi e che spesso le scivolava dietro sulle natiche, anch’esse, va da sé, enormi. Bucco si ritrovò la donna alle spalle lì accanto a lui senza spessore. Anche la Donna Colonnello Spagnolo imbarcata sul Robarco era solo letteratura. Nella testa di Bucco seduto su una bitta di un porto al di là dell’Adriatico e contemporaneamente all’interno del suo letterario Robarco di carta, cominciò ad affacciarsi e a farsi spazio l’idea di far sesso con la Donna Colonnello Spagnolo: la seguì fin sotto alle cabine e in una di quelle vi si infilò dietro al corpulento oggetto del suo desiderio. Bucco e la Donna Colonnello Spagnolo, senza proferir parole, si spogliarono e cominciarono a far sesso sguaiato come solo nella fantasia è concesso.

Bucco stava seduto, nel torrido d’un’estate dei primi anni del secolo, su una bitta di un porto al di là dell’Adriatico. Poteva essere il porto di Spalato, o Split che dir si voglia, anzi era di certo Spalato, o Split, ma a Bucco in quel torrido che levava forze e respiro, a quell’ora e in quel luogo poco importava dove si trovasse e tanto meno importava della disputa sul nome, una disputa che portava a guerre di tanto prima che lui fosse nato. Di ben altre guerre Bucco era consapevole, di quelle vissute una decina d’anni alle spalle e nelle cui macerie aveva camminato per mesi e ancora vi aveva camminato il giorno prima e la mattina del giorno stesso, perché le macerie causate da una guerra sono infinite di fuori e di dentro. Bucco camminò a lungo tra le macerie lasciate dalla guerra scoppiata dopo la caduta del comunismo in tutto il territorio chiamato un tempo Jugoslavia. Tra quelle macerie era stato mandato per aiutare a ricostruire o a inventare. In quel momento, comunque, la sua testa era tra la cosce della Donna Colonnello Spagnolo, in una cabina del Robarco, e le sue mani accarezzavano le caviglie grosse di un’altra donna che un tempo si accompagnava nel sesso a lui.

Tre ululati forte di sirena fecero scendere Bucco dal suo Robarco di carta e letteratua e ciò accadde quasi contemporaneamente all’essere investito dai berci e dalle grida dei suoi compagni, anch’essi cooperatori di pace, che, in attesa dell’imbarco sulla nave che li avrebbe riportati ad Ancona, si erano dispersi tra le vie strette del fu maestoso e mastodontico Palazzo di Diocleziano in cui si erano incuneate le raffinate architetture della Venezia predatrice repubblicana. Tra quegli uomini, per la maggior parte alticci, se non proprio sbronzi, a Bucco parve di vedere la Donna Dalle Caviglie Grosse che tanto aveva cercato nel suo starsene seduto su una bitta del porto di Spalato. Nell’imbarcarsi sul gran traghetto che l’avrebbe riportato in Italia, a Bucco parve di scorgere la Donna Colonnello Spagnolo alla guida di una vecchia jeep forse americana. Benché fosse ormai distante e nonostante la gran mole della donna riuscì a vedere bene la caviglie grosse che premevano forte i piedi sui pedali dell’acceleratore e del freno. Bucco salì a fatica, il capo all’indietro sul molo d’attracco, la rampa d’accesso al traghetto, confuso, ributtato, questa volta in concreto e nella realtà in una di quelle situazioni balorde in cui ci si sembra perdersi non una, ma due volte e forse più e ben presto fu consapevole di come fosse divenuto reale in lui il torpore delle delusioni amorose, nulla di letterario, inventato, incorporeo, lì mentre s’imbarcava sul traghetto che l’avrebbe riportato in Italia e gli parve di trovarsi in quella sorta di equilibrio precario tra l’essere cosciente dell’esistere e del ricordare e l’essere cosciente del non esistere e dello smemorarsi.