IL MIO 68

Ringrazio Domenico Megali che nella sua raccolta di memorie del 68 ha voluto inserire anche le mie "minime e domestiche. Le memorie sono state pubblicate su Facebook tra l'autunno e l'inverno del 2018. (ar)

IL MIO 68

 
L’incipit di quell’anno lunghissimo, un anno lungo, più di cento mesi, per me fu il maggio del ‘66. In fondo a via Ripamonti a Milano avevano tirato su alla bell’e meglio la tendopoli di Mondo Beat più conosciuta come Barbonia City, come l’aveva ribattezzata il quotidiano La Notte diretto da Nino Nutrizio. In casa mia si leggeva solo quello. Famiglia composita la mia: papà, mamma, sorella, nonni paterni, una vecchia sorella del nonno (aveva conosciuto Giuseppe Garibaldi). E naturalmente c’ero anche io. Tutti sottoproletari e fascisti, mal ridotti da piccole epurazioni e grosse crisi economiche. La zia no imvece. Antifascista e cattolicissima, ma non bigotta, lavorava ancora e sosteneva per gran parte la famiglia. Era lei che mi faceva leggere il Corriere della Sera e qualche volta anche l’Avanti, quotidiano del Partito Socialista Italiano.
Mi tenevo lontano da qualsiasi discorso politico perché non ne capivo nulla, ero confuso e abbastanza sonnacchioso. Fu due anni prima, più precisamente nel ’64, che percepii la mia prima scarica di adrenalina. Accadde al concerto dei Beatles del Vigorelli di Milano. Ma oltre la musica quello che mi scosse veramente fu una ragazza, più grande di me, quindicenne, seduta sulle tribune in sasso del Velodromo. Mi innamorai perdutamente di lei anche se non provai mai a incontrarla di nuovo e soprattutto non scambiai mai parola con lei. Due anni dopo la rividi in una foto pubblicata proprio sul quotidiano milanese del pomeriggio. Nella didascalia la si definivano una beatnik dell’accampamento di via Ripamonti. Ricordo che non persi tempo, mi precipitai subito nella tendopoli ma di lei non trovai alcuna traccia. Trovai invece gli sguardi duri di chi frequentava quel posto: figurarsi un pirletta del tutto normale come me con tanto di sfumatura alta avrebbe insospettito e urtato la sensibilità di chiunque di loro. Qualche giorno dopo la polizia fece incursione nella tendopoli che fu rasa al suolo. Quello che mi spaventava di più era la caccia al capellone che si era scatenata. Furono giorni di botte e fogli di via con bande di fascisti, benpensanti e commercianti, antesignani della maggioranza silenziosa, armati di forbici, che davano la caccia a chi aveva il capello lungo. Io con la mia sfumatura alta stavo tranquillo, ma fu in quei giorni che una paura irrazionale e quasi senza ragione mi spinse a fare un salto di qualità nella mia vita: liberarsi della mia famiglia. All’inizio fu una questione di testa, solo più tardi, se pur modesti, arrivarono nuovi gesti, nuovi comportamenti.
Il primo gesto di ribellione contro scuola e famiglia fu votare per la lista situazionista alle elezioni studentesche del CSB (Comitato Studentesco Berchet). Era il novembre del 1967. Non sapevo bene chi fossero i situazionisti. Ma mi piacevano. Ne avevo sentito parlare in quei primi giorni dell’anno scolastico. Erano centinaia i volantini che annunciavano un progetto per una politica nazionale studentesca e soprattutto l’uscita di un giornale del movimento. Ci capivo poco ma su l’Avanti! lessi che socialisti e comunisti erano preoccupati per il veloce dilagare di quel movimento. Anche i fascisti erano molto preoccupati e così anche gli alti prelati della Curia che aveva sede presso l’Arcivescovato di Piazza Fontana. A riportare il punto di vista curiale su politica e temi sociali si era incaricata una ragazza del secondo anno del liceo. Era bionda, slavata, coscia lunga, faceva da megafono a don Giussani che con la sua Gioventù Studentesca si infiltrava nei licei milanesi. Parecchie le liste che si presentarono a quel turno elettorale scolastico. Tra queste alcune promuovevano i votati al fancazzismo, del tipo “Meno greco più Beatles”.
Votai i situazionisti, che al Berchet vinsero le elezioni per il loro programma che io lessi solo quando di loro si era persa ogni traccia o quasi. Votai situazionista semplicemente perché, tra i molti punti del loro programma mi colpiva la proposta di abolire il grembiule nero per le ragazze. In fondo mi interessava di più vedere le forme delle mie compagne, che urlare contro il presunto furto da parte dello Stato di centinaia di milioni dalle casse scolastiche di cui si smise di parlare molto presto, così come da lì a pochi mesi tutto fu frullato nel mix di tensioni che percorsero il Sessantotto.
A muoversi per primi furono i ‘grandi’ dell’Università Cattolica che si opponevano a uno spropositato aumento delle tasse. Ma era solo un pretesto perché sotto covava ben altro. Una tensione che si sentiva in tutta Europa e al di là dell’Oceano dove si manifestava contro la guerra del Vietnam.
Fu nel gennaio del 1968 durante l’occupazione del liceo Berchet che iniziai a darmi da fare. La prima occupazione di un liceo a livello nazionale. Fu quello il debutto degli studenti delle scuole medie nella contestazione milanese. La partecipazione non fu massiccia. Eravamo tutti molto curiosi. Più che per la reazione di preside e polizia, l’occupazione ebbe fine perché l’assemblea implose su se stessa a causa della scarsa organizzazione e della poca presa sugli studenti degli argomenti portati in assemblea. Le cose importanti, i dibattiti e gli scontri arrivarono molto dopo, ci sarebbero quasi piovuto addosso.
Quel giorno di gennaio, nelle prime ore del pomeriggio, quando il buio si stava insinuando tra le nostre file uscimmo dal liceo “liberato”, come strillava La Notte, accolti da un’infilata di genitori che a muso duro si era schierata ad aspettarci. Come rappresentante della mia famiglia si presentò mia nonna. Quel mese di gennaio me lo ricordo bene perché coincise con l’allontanamento da casa. L’occasione mi fu presentata dal terremoto del Belìce. La terra tremò a lungo a partire da metà gennaio. Avevo già avuto esperienza di soccorsi nel novembre del ‘66, nella Firenze alluvionata dall’Arno straripante. In quell’occasione ero andato ad aiutare parenti in Padule, intrappolati dal fango per giochi di chiuse e dighe aperte per salvare la città di Pisa. Là era rimasta intrappolata anche mia madre. E così mentre gli angeli del fango erano impegnati a pulire il Crocefisso del Cimabue, io tiravo fuori la vacca dalla stalla dello zio a pacche sul culo.
In Belice ci andai soprattutto per tirare fuori di casa me stesso. La scuola, lo studio, mi interessavano poco e il continuo fare assemblee mi sembrava solo un gran far di parole.
In Sicilia, sarà stato per la paura, sarà stato per la miseria che la si toccava anche dove il terremoto si era scordato di passare, il Sessantotto era solo un anno maledetto per come era iniziato. Al fremito che scuoteva Milano rispondeva lo scuotimento del terremoto. Del ’68 politico al Sud non c’era traccia. Nelle facce di quei vecchi si vedeva solo una grande paura unita a una grande diffidenza verso quelli come noi che venivano dal continente. “Venirci a che fare fin lì”, ci chiedevano, “che poi su al Nord scrivete sulle porte non si affitta ai meridionali”.
Se qualcosa si poteva condividere con gli abitanti del Belice era la repulsione per quei balletti di governi a guida democristiana, sempre diversi e sempre tutti uguali. Ma se io e i miei compagni di liceo non digerivamo quei governi perché li ritenevamo vessatori e sempre oppressivamente presenti, al Sud non li digerivano, perché dopo averli votati, erano stati dimenticati. Dimenticati anche nei momenti duri del terremoto.
In Sicilia ci sono tornato parecchie volte e ogni volta eran guasti allo stomaco a vedere borghi terremotati perfettamente in piedi e a pochi chilometri di distanza, ancora la presenza di tendopoli su tendopoli. Nel ‘74 ero lì e pensai che la vittoria del NO al referendum sul divorzio, anche in quella Sicilia ritratta da Germi, avrebbe dato la fiammata per l’inizio del cambiamento. Mi illudevo. Dopo pochi mesi del mio sbarco in Sicilia tornai a Milano, giusto in tempo per farmi avvolgere della fiammata che cominciava a bruciare Milano e le grandi città del Centro e del Nord.
Il rimbombo che saliva alle orecchie con tutta la sua imponenza era prodotto dai pietroni del vecchio pavé e dall’asfalto delle grandi vie del centro cittadino. Il mio primo impatto con questo rumore di fondo accadde in Corso di Porta Romana. A causarlo i passi ritmati dei cinquecento studenti del Berchet: la prima dimostrazione per strada del nostro risentimento. I nostri passi forzati e cadenzati sul selciato facevano molto rumore e manifestava la nostra spontaneità. Ma quel calpestare tra rabbia e gioia assumeva, passo dopo passo, altri significati. Manifestava la voglia di schiacciare ben altro. In quei passi c’era il procedere verso il sol dell’avvenire e il desiderio di allontanarsi da famiglia e scuola, consapevoli che non ci avrebbero portato fuori dalla miseria culturale ed economica che, in quei giorni, sembrava non riguardare la maggior parte degli studenti scesi in piazza. E tra questi c’ero anch’io, che al liceo ero arrivato grazie alle mance che mia madre cuoca e cameriera intascava in un micragnoso ristorante di Porta Venezia.
Quel giorno in pochi minuti il corteo si ingrossò con l’arrivo degli altri licei. Prima mille, poi duemila, cinquemila, diecimila, ventimila, e forse molti di più. La sera dal tavolo di cucina le pagine de La Notte strillavano “Diecimila balilla di Mao in piazza”. Balilla di Mao. Già, Mao. Certo che si conosceva Mao. I più comunque l’avevano sentito solo nominare al Telegiornale con tutta quell’affascinante rivoluzione culturale, tra sogno e violenze gratuite e persecutorie. Era il marzo del ‘68, i primi giorni del mese, da lì a poco avrei compiuto diciannove anni, età che allora non ti qualificava ancora come maggiorenne. Non si era ancora buoni di decidere del proprio futuro ma eravamo considerati ottimi bersagli per ricevere fumogeni e manganellate dalla Polizia. Mi ritrovai in mano Il libretto rosso di Mao. Per breve tempo mi avvicinai a Servire il popolo. Sventolai anch’io quel libretto, ma andando controcorrente, perché ero tra quelli che criticavano molti atteggiamenti moralisti, se non bigotti, come i dubbi sulla legittimità dell’aborto, l’avversione al divorzio, di cui allora già si parlava, e il divieto per le compagne maoiste di indossare la minigonna. Era questo il tema che faceva più discutere noi pirletti con punte di vistoso rammarico.
I
n quegli atteggiamenti vedevo i prodromi per una nuova sorta di religione di chiesa e di Chiesa me ne bastava già una. In quel caos di libretti rossi e veti mi sembrò pescasse il Don Giussani non ancora Comunione e Liberazione. Aldo Brandirali ne è un bell’esempio. Dal rimbombo di quei passi sul pavé alla rimbomba che mi prese la testa il passo fu breve e le notizie che arrivavano dalle strade di Parigi ne aumentarono consistenza e gravità.
L’estate del ‘68 fu calda e tranquilla e, almeno per quanto mi riguarda, neppure tanto entusiasmante. Complice dello scarso entusiasmo un piccolo intervento chirurgico, la rimozione di una fistola perianale, subita nel mese di luglio in una clinica privata. Ahh le tristi contraddizioni del sottoproletariato o lumpenproletariatt, che allora faceva più fico. Faticava a combinare pranzo con cena, ma non poteva permettere di mandare il rampollo di famiglia in un ospedale pubblico perché per molti era (è?) norma meno si ha più si ostenta. Intervenne tutto il parentado a far colletta per pagare la retta di quell’afosissimo ricovero. L’operazione fu di per sé banale, ma i giorni, i mesi a seguire furono contraddistinti dai frequenti, fastidiosi e dolorosi passaggi al Pronto soccorso, per le necessarie medicazioni e per ridurre la ferita. Mi giocai così l’estate al mare, per via che la ferita non doveva rischiare di entrare in contatto con sabbia e sale, e rimasi a lungo, molto a lungo, nell’inzaccherato paese di mia madre a margine del Padule di Fucecchio. Dunque la politica la seguii sul giornale: nel Paese qualcosa stava mutando e di contestazione si cominciava a parlare anche nelle fabbriche, in quelle grandi del Nord. A Sesto e al Lingotto la contestazione non solo incuriosiva, ma cominciava ad attirare sempre più. Per tutta risposta si accentuavano le difese, non solo di identità, della sinistra tradizionale e storica con in testa Pci e Cgil.
Al paese di mia madre conobbi un comunista vero: Giorgio, consigliere provinciale di Pistoia, mezzo parente perché lui e mio zio, reduce, prigioniero in Grecia e Africa e convinto fascista, avevano sposato due sorelle. Da quegli incontri cominciai a essere invogliato a leggere l’Unità, organo del Partito. Lui, muratore, quinta elementare, mi fece conoscere Marx e soprattutto Gramsci, che “diobbonino col Gramsci non ce n’è punto per nessuno compresa quella sega di Mao”.
Oltre a Giorgio, Marx e Gramsci in quell’estate senza entusiasmo conobbi due figlioli di amici di mia madre, anche loro venuti a Milano per aprire, nell’immediato dopoguerra, trattorie toscane o per servire in queste. Con loro non si parlava di politica, ma di donne, delle poche che il paese offriva e di quanto ci costava un monte prendere tutti i giorni il bus per Montecatini per andare alle Panteraie, terme e piscina, per vedere da vicino le forestiere. Anche di calcio si parlava, del resto l’Italia in quell’anno era diventata Campione d’Europa nelle rocambolesche giornate romane all’Olimpico con monetina in semifinale e ripetizione della partita in finale contro la Jugoslavia. Con i due nuovi amici mi vedevo la sera. Di giorno si stava chiusi a doppia mandata a studiare per quegli esami a settembre che si erano tirati appresso. Di politica dunque non si parlava, ma fu proprio la politica, o i suoi derivati, che qualche mese dopo consolidarono la nostra amicizia. L’appuntamento era in Piazza della Scala a Milano. Era il 7 dicembre 1968 serata di prima con il Don Carlos di Verdi. Alla Statale e nei licei girava da settimane lo slogan Falce e martello borghesi al macello. Volarono uova e sputi sui visoni delle sciure che entravano a teatro. Capanna, inteso come il Mario, aggrappato a un megafono, invitava i celerini a unirsi agli studenti, agli operai, che quella sera scarseggiavano. Ci fu una carica della polizia con un paio di fermati. La serata entrò nella leggenda, fu amplificata: io ai tre squilli della carica rinculavo in Galleria nell’abbraccio dell’Ottagono accanto a coppie di sciuri che bianchi e slavati avevano preferito disertare la prima scaligera.
Ben altri i colpi, ben altre le corse, ben altre le paure e gli sgomenti che ci (mi) attendevano da lì a poco in altre parti d’Italia. Con i due amici trovati nell’estate precedente fiacca e malandata, decidemmo di trascorrere il Capodanno al paese natale delle rispettive madri. Alle 22 ci sarebbe stato il veglione nella balera e le ragazze intraviste l’estate ci sarebbero state tutte. Per tirar sera decidemmo di fare una girata a Viareggio da cui saremmo dovuti tornare con il bus in tempo per un ballo prima del brindisi.
Arrivammo al mare prima di mezzogiorno e cominciammo a girare per il deserto lungomare da Piazza Mazzini al molo. Poca gente ma tanti manifestini appiccicati in ogni dove. Dicevano: borghesi venite alla Bussola, saremo lì ad aspettarvi. Qualcosa in merito avevo sentito a Milano, ma tutto era nato a Pisa attorno a quelli di Potere Operaio e si era diffuso a macchia d’olio: da Livorno e Piombino a La Spezia e Sarzana. In programma quella sera di Capodanno alla Bussola di patron Bernardini era prevista Shirley Bassey. L’aria era tesa già nelle prime ore del pomeriggio, più ci avvicinavamo alla Bussola e più si ammassavano i cellulari della polizia. I miei due amici non ne vollero sapere di restare e presero il primo bus per far ritorno al paese; io mi spinsi fino al locale dove compagni di varie formazioni, gruppi e gruppuscoli cominciavano a prendere posto dietro la gran siepe che portava all’ingresso. Tutto quello che avvenne poi resta nelle cronache: gli insulti e le uova a chi arrivava, roba già vista alla Scala, ma poi cariche senza preavviso e le jeep della polizia date alle fiamme, e tutto uno scatenarsi, e poi gli spari, lo sparo, un colpo di una Smith e Wesson 38 e un giovane a terra. All’indomani seppi, lessi, di Soriano Ceccanti, sedici anni, paralizzato a vita. Io, impaurito e frastornato, lì solo per curiosità, scappai. Di bus non ce n’erano più, per passare la notte chiesi e ottenni ospitalità dai proprietari dei bagni che frequentavo d’estate da quando avevo dieci anni. Nessuno mi chiese nulla, brindammo fino a tardi. L’indomani presi il primo treno per Montecatini e da lì a piedi fino al paese. Nessuno si era accorto della mia assenza. Nessuno del resto si accorse o, per lo meno, fece finta di nulla di fronte a quei mutamenti politici che si radicalizzarono proprio in quella notte di Capodanno.
A sinistra del Pci ormai si era concretizzata una nebulosa zeppa di sigle e ideologie, dai potopisti ai maoisti, dai castristi agli anarchici, uniti soltanto dall’idiosincrasia per il riformismo democratico, teso alla ricerca di una via italiana del socialismo, via confusa e sbilenca, portatrice sì di significativi successi a partire da divorzio e statuto dei lavoratori, ma che in sé conteneva anche i pericolosi germi di una dannosa afasia, che ancora oggi, cinquant’anni dopo, immobilizza le forze, ancora variegate e contrapposte, che compongono la sinistra. Il Sessantotto, quello duro, cominciò per me nell’ottobre del 1969. Uscito dal liceo, in Statale mi offrii subito per organizzare i cortei dei medi, al Berchet, ma anche al Leonardo da Vinci dove del Movimento si occupava la mia vicina di casa, o al Verri dove c’era mia sorella. In quegli anni, al quarto piano del mio stabile venne a vivere Mario Spinella, a quel tempo direttore di Rinascita: una montagna di libri e soprattutto una gran voglia di tirarmi fuori dalla mia vita sonnacchiosa. Passavo le nottate intere a studiare da lui i classici del marxismo e soprattutto conobbi di persona i grandi della poesia, da Montale a Sereni a tanti altri e cominciai a scrivere, scrivere… Di notte studiavo e scrivevo e al mattino megafono e scarpe comode in giro per la città, in mezzo, ma anche un po’ davanti agli studenti.
Gli ultimi mesi dell’anno coincisero con l’autunno caldo. Io giravo anche per le fabbriche, contestavamo ed eravamo contestati e, sebbene qualcosa cominciasse a cambiare nei rapporti tra operai e studenti, loro facevano i comizi ufficiali nei teatri e noi fuori a prenderle dai poliziotti. Durante le cariche della polizia per una manifestazione al Teatro Lirico fu ucciso il poliziotto Antonio Annarumma. Forse fu quello l’inizio degli anni di piombo. Certo l’apice della strategia delle tensione si ebbe poco meno di un mese dopo con la strage di Piazza Fontana. Stavo con Laila, una ragazza con cui studiavo, a cercare libri che occorrevano per l’esame di Storia del Cristianesimo alla libreria SEI. L’esplosione sconvolse tutti, rimanemmo a lungo, qualcuno steso a terra, le mani sul capo, dentro la libreria. Quando uscimmo nel rimbombo di grida e sirene, ricordo solo un gran fumo e tutto bloccato. Salutai di fretta Laila che non vidi più, neppure in sede di esame. Tornai a casa, il nonno era agitato come mai prima di allora. Disse che era preoccupato per il Carlo, sì il Gerli, suo cugino, che anche se aveva smesso di fare il fittavolo andava sempre alla Banca il venerdì, per trovare i suoi amici. Lo conoscevo anch’io il Carlo: per me da piccolo, era quello che aveva le galline che facevano uova col doppio tuorlo. Tre giorni dopo ero in Piazza Duomo con tutta la famiglia per i funerali del Carlo e degli altri sedici. Il giorno dopo i giornali in prima pagina parlavano dei funerali, di quei grandi funerali popolari; sulle stesse prime pagine c’era scritto anche “Anarchico si uccide in questura buttandosi dalla finestra”.
Ai funerali di Pinelli c’ero con Spinella e Fortini. La gente non era molta, i più ebbero paura di farsi vedere. Quella paura che qualche anno prima mi aveva spinto ad avvicinarmi alla “contestazione” era tornata e non mi avrebbe più lasciato. Non la paura di farsi vedere, ma quella di smarrire, perché sconfitti dalla gente e dalla storia, quei valori per cui in molti abbiamo speso una vita e tanti l’hanno anche persa.
 
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