UN RUMORE
L’erba, quasi tutta, era color verde bruno, come è solita esserlo d’estate. Bucco, allontanatosi dall’abitato di S., poco prima del tramonto, giunse in un prato degradante lento verso il mare: quasi uno sfioro delicato tanto che, complice un leggero vento che soffiava su da Est increspando le erbe, sembrava un tutt’uno confuso tra cobalti e smeraldi.
Bucco si preoccupò di tentare di riconoscere le erbe che formavano il prato. Fu orgoglioso quando, accanto al loglio italico, alla mazzolina e alla festuca, fu certo di essere sicuro anche dell’esistenza in loco sia della bambagiona e sia della lunaria, quest’ultima in modesti ciuffi poco di più di sterpi arsi dal gran secco d’agosto.
Deciso a scovare, se mai ci fosse stata, qualche zeppa d’erba gatta, giunse quasi al bagnasciuga. Qui prese lungo un muro a secco e risalì, attraverso altri prati, la piccola duna che dominava il mare. Arrivò in cima a uno spiazzo, un tondo in terriccio rosso: da lì avrebbe osservato il tramonto chiudere nel suo fuoco orizzonte e giornata.
In quel luogo abbandonato a Bucco parve di sentire un rumore. Quasi lo schioppettìo rauco di un motore. “Qui non ci sono motori - pensò -. Forse il caldo o il vino bevuto a pasto”.
Il rumore, tuttavia, non tardò a farsi nuovamente sentire. Niente di più che secchi colpi di tosse. Bucco ne individuò la probabile fonte dietro un’alta e intricatissima siepe d’arbusti che, nonostante tutto il suo recente sfogliare e studiare erbari, non fu in grado di riconoscere.
In poco si trovò attaccato alla siepe. Arraffando arbusti qua e là, riuscì a trovarsi uno spiraglio per osservare da dove provenisse quel rumore insistito e, in un certo qual senso, malato. Appena l’occhio mise a fuoco l’al di là della siepe, la sorpresa fu enorme. Bucco, giusto in un taglio di sole, scorse l’Uomo Sporco In Tuta. Era questi un lungagnone sulla quarantina: uno di quelli che sarebbe stato più facile immaginare tennista in qualche club di città che lì ad armeggiare, sporco e unto dentro una tuta slisa, dietro a quella cosa che sembrava, senza tanti dubbi, essere una carcassa di un piccolo aereo, residuato certo di qualche guerra smessa o rimossa.
Ansia e stupore costrinsero Bucco a un movimento brusco e scomposto che lo rivelò all’Uomo Sporco In Tuta. Questi, in un attimo, gli fu vicino e, prima ancora che Bucco avesse il tempo di scusarsi o altro, se ne uscì in una lunga e rumorosa risata chiusa all’improvviso da un “Che qui di gelati non ce n’è più per nessuno”.
Afferrandolo per un braccio lo trascinò a sedersi su un masso muschioso sotto la fusoliera. L’Uomo Sporco In Tuta cominciò a raccontare, con passione come se da tempo attendesse quel momento, di sé e della sua cocciutaggine dietro quell’apparecchio che non aveva alcuna intenzione di alzarsi da terra e volare. Il “per dove” non era certo importante. All’Uomo Sporco In Tuta interessava soltanto partire e solo con il suo aereo trovato, chissà quanto tempo addietro, pezzo dopo pezzo in un attento girovagare per campi di battaglie, dai più scordate o rimosse. L’aveva portato lì in cima alla duna, trascinandolo con spesse funi, la notte; da allora non se ne era più allontanato. Si nutriva di selvaggina di passo appena rosolata. Dormiva, il sufficiente a riordinare idee e a recuperare forze, in una di quelle baracche che la Protezione Civile aveva fatto erigere per la gente colpita da un terremoto che per tre volte scosse le terra: il mese, gennaio. Di quelle baracche, avvolte dal fitto dalla siepe d’arbusti sconosciuti, né Bucco né altri avevano mai inteso parlare. Problemi per quell’aereo ne aveva avuti molti: dapprima fu questione di chiavi inglesi, più tardi di lubrificanti.
L’Uomo Sporco In Tuta, o meglio l’Uomo Che Aveva Perso Tempo, così Bucco aveva deciso che una simile definizione sarebbe calzata a pennello a quello strano uomo che gli stava davanti, aveva annotato puntualmente ogni cosa in un grosso libro mastro. Lo aveva fatto con la pignoleria di uno di quei vecchi droghieri ingobbiti, la cui immagine Bucco si portava dentro dall’infanzia, che appena consegnato il cartoccio di liquirizia a stecco al cliente si rincantucciava nel retro micragnoso a segnare incasso e ricavo parziali.
Ciò che attirò maggiormente Bucco, ormai non preoccupato più di tanto a chiedersi come un uomo potesse rinchiudersi in una simile follia, fu la possibilità, o meglio la speranza, di leggere alcune pagine del libro mastro dell’Uomo Che Aveva Perso Tempo, convinto che non si sarebbe per nulla stupito se si fosse trovato a leggere in quel libro unto notazioni che avrebbero riguardato un po’ tutti a cominciare forse anche da se stesso. Fu presto soddisfatto, l’Uomo Che Aveva Perso Tempo estrasse da un tascapane unto da grasso di motore il suo libro mastro. In una pagina del diario, dove la calligrafia si faceva più ariosa e distesa, l’Uomo Che Aveva Perso Tempo indicò a Bucco alcune righe: “Mai ho creduto che l’aereo potesse un giorno partire, ma il costante rimuovere questa certezza e il continuo perdere tempo, unto di grasso, in progetti e smanettare di chiavi inglesi è ugualmente un partire e così sarà per tutti gli altri che verranno dispersi sotto tramonto”.
Bucco si ritrovò in mano una chiave inglese, sbirciò di sopra la spalla: l’Uomo Che Aveva Perso Tempo era scomparso. Gli parve di sentire al di là della siepe un rumore, quasi uno schiop-pettìo rauco di un motore. Voltò pagina e, sotto un titolo in rosso “Che qui di gelati non ce n’è più per nessuno.”, continuò a leggere: “L’erba, quasi tutta, era color verde bruno, come è solita esserlo d’estate. L’uomo, allontanatosi dall’abitato di S., poco prima del tramonto, giunse in un prato degradante lento verso il mare...” .