UN VIAGGIO
Un martedì di fine settembre, poco dopo il tramonto. Il treno su cui viaggiava Bucco urlava rosso nella pianura.
Le gambe tese alla sghimbescia perché meglio non gli riusciva per quegli spazi angusti che separano sedile da controsedile. Scompartimento vuoto. È sempre stata sua abitudine, alla partenza di un viaggio in treno, qualunque fosse la destinazione, sedersi in uno scompartimento vuoto.
Sarà stato forse per pigrizia, ma Bucco non ha mai avuto voglia di scegliersi compagni di viaggio. Scegliessero gli altri, se ne avessero avuto voglia, alle fermate successive.
Un cane dalmata, apparentemente senza padrone, fu il primo che scelse Bucco.
La bestia aveva un collare rosso: scavalcò le sue gambe e si appisolò, così almeno diede a credere, in fondo: sotto il finestrino. Bucco ritrasse le gambe e sporse il capo fuori dallo scompartimento per individuare il possibile padrone dell'animale.
Il corridoio era deserto.
Bucco si ricompose sul sedile e si preoccupò di attirare l’attenzione del cane. Lo disturbava l'idea di dover viaggiare con un simile compagno di viaggio.
Si mise d'impegno per ripetere il fischio arrotolato con cui un vecchio zio di sua madre chiamava i propri cani, una volta stanato il lepre che sarebbe finito, di certo, in stufato.
Stropicciò più volte cartine di caramelle. Nell'uno e nell'altro caso non ottenne risultato.
Una donna, “buonasera, posso?”, fu la seconda che scelse Bucco. Non essendo alta non ebbe problemi ad accavallare le gambe in quegli spazi stretti. Bucco pensò fosse la proprietaria del dalmata, anche se questo non fece il minimo scodinzolìo di conoscenza. Dal canto suo la donna non rivolse neppure una, benché minima, occhiata al cane. Estrasse dalla borsa a tracolla un giornale e prese a leggere senza dire parola.
Fu forse verso Arezzo che Bucco cominciò a sentire disagio per quei due compagni che lo avevano scelto.
Formicolìi a un braccio e al labbro, farfalle nello stomaco: roba da non farci caso. Sapeva che se al rientro in città si fosse recato dal medico, "nervoso", questi gli avrebbe detto sorridendo. Comunque disagio che non aveva alcuna voglia continuasse. Decise così di rompere il ghiaccio. "Bello il suo cane", disse sciocco.
La donna non rispose. Bucco uscì nel corridoio deserto. Abbassò il finestrino. Violento lo schiaffo di vento che lo colpì in volto. Un'aria secca, pungente, che avrebbe disturbato chiunque.
“Bene”, pensò. Voleva attirare la loro attenzione, smuoverli e anche il recar fastidio poteva tornargli utile. Un ringhio del cane o un "chiuda, per favore" della donna; sarebbero stati il la per rompere quella sua situazione di disagiato stallo. Non accadde nulla.
Fu quando il treno prese a fischiare nel Casentino che Bucco inventò la cosa più idiota per attirare l'attenzione della donna. Una grande luna stracciava da dietro gli alberi lungo gli argini dei poderi. “Venga, venga a vedere la luna".
Qualcosa si smosse, più di un qualcosa. La donna fu scossa da un tremito che le tagliò di netto il viso.
“Per favore la luna, le lune, no, grazie".
La cosa più idiota che Bucco avesse potuto pensare si rivelò formidabile per smuovere la situazione. Non fece neppure in tempo a pensare a una risposta che quella, "io le mie lune le ho qui" e mostrò, tirando Bucco di nuovo a sedere, il palmo dell a mano destra: due lune grigiastre, un tatuaggio, le troncavano quella che in molti definisconola linea dell'amore.
Bucco le sfiorò la mano. Il cane ringhiò, fu ringhio breve ma pur sempre ringhio da fargli subito ritrarre da quel gesto spontaneo e immediato.
La donna delle lune sorrise. "Nulla che possa preoccuparla", disse. “È una cosa lunga, tanto lunga, meglio non parlarne. Ho sbagliato, mi scusi, ho sbagliato". Il suo sorriso si spense in qualcosa di molto simile al timore che si dipinge in volto ai bambini quando prevedono un castigo imminente.
Pur morendo dalla curiosità Bucco cercò altri discorsi. Fu lei ad aiutarlo. Veniva da lontano, aveva attraversato tutta la penisola ed era la terza volta in meno di un mese. Certo la stanchezza un po' la prendeva, ma doveva farsi coraggio e andare, andare. Qualche volta, per cenni, le capitava di raccontare.
Il cane, di tanto in tanto, ringhiava, come sapeva fare lui, brevemente. Un richiamo e via. La donna delle lune ad ogni ringhio sembrava perdersi, poi si ricomponeva.
... Ci sono treni lunghissimi coi vagoni a colori pastello. Su questi convogli, residui di storie marginali come quelle sudate nelle convalescenze d'infanzia, ancora Bucco si accoccola, quando stanco accalla le imposte e lascia filtrare soltanto tenui fasce di luce agitata dal pulviscolo, sul dopo pranzo.