UN ARCIPELAGO
Bucco non aveva mai fatto mistero di amare il mare. L’infrangersi ritmico d’acqua e spume era sempre riuscito ad acquetare il suo starsene sempre irrequieto.
Quel giorno – un quarto venerdì di uno stracco mese d’agosto, nell’aggroviglio accaldato della città, lo prese un gran desiderio di mare.
Un mare qualunque, anche anonimo, magari solo domestico, purché fosse mare.
Se ne sarebbe stato lì a guardare la marea. La marea sei ore sale, sei ore scende. In quelle sei ore il colore del cielo cambia, la nuvolaglia s’accorpa e si sparpaglia, cambia la vita, mutano i rapporti, le circostanze: ciò che fu saluto si fa affetto e, d’altra parte, tenere cure a ramengo.
Le piccole isole, le minuscole isole, poco più di una minutaglia, lenticchie, sembravano nei, stavano lì sotto i suoi occhi.
In altri tempi e sulle coste di altri mari gli riusciva sempre essere occhio d’aquila a cogliere il fumo del piroscafo prima che questi occupasse, un punto la prua, una piccola porzione dell’orizzonte.
Altre volte fu gambero teso a rinculare nella rena molle di morbide cale: il mare che risucchia, che riporta nel liquido grembo, sentirsi franare dolcemente in altri altrovi nell’occhio del gheppio alto, tutto intento in posta a battere lo spirito santo, un punto mosso sopra il monte.
Altre ancora in mari del Sud, confuso dal canto di giovane donna, si aggiaccò nella sabbia: il mese novembre, l’alba che allungava ombre quasi a indicare approdi certi alla barca lontana e rossa di pescatori bruni.
Mentre mirava quell’isolaglia minuta, lì così a tiro di mano, Bucco si lasciò andare col capo alla pesca di altri suoi mari: il mare sopra le case, due strisce d’azzurro una sull’altra, sotto il bianco delle malte rattoppate alla meglio delle case sciancate dal terremoto fu bella cosa nel distacco da quel mare ancora tremante di paura. Quell’immagine, caduta in coda all’occhio dall’ultimo finestrino del treno, gli parve potesse ridare quiete a quel cristo rosato coi piedi franati nei calcinacci della chiesa matrice.
Quelle isole così vicine da toccare con le dita lo tentavano sempre più. Si ricordò ancora di un vecchio nero in riva a un altro mare lontano. Rinchiuso nell’ombra oscura d’un portichetto sghembo stendeva, con grande cura, sulle gambe mal ferme uno stropicciato foglio di carta, forse oleata di quella per incartare olive, con cura ne placava ogni piccola piega. Nei graffi rimasti vi giocava con l’unghia, disegnava itinerari, mappe vissute o forse solo immaginate. Nel ricordo Bucco si vide ombra nel sole, ombra maltrattenuta da un cespo di capperi: lui tutto teso a spiare il gioco del vecchio.
Troppo vicine quelle isole perché la voglia di giocarci come quel vecchio col suo foglio oleato per olive non finisse col vincerlo. In quell’arcipelago tutto suo cominciò a disseminare intime e domestiche bandiere, più in là anche qualche scialuppa in caso di naufragio. Passò tra un’isola e l’altra le sue dita a sfioro: quasi volesse lasciare, anche lì, segni del “qui che sono stato”.
In quell’isola più grande ci disegnò un hangar di riposo e poi¼ e poi in quell’altra, un poco più sotto¼ il tocco gli fu fatale: la ragazza che aveva assecondato il suo sfioro si mise a sedere, ricompose la maglietta a coprire i seni e quel minuto arcipelago di nei che li circondava, se ne uscì dalla stanza. Forse non vi fu neppure il tempo di un sorriso nel distacco.
Bucco s’aggiustò lo scaruffo di capelli che gli cadevano sulla fronte. Respirò più forte del solito. Spalancò la finestra. Uno stridiio di gabbiani, piovutogli addosso dall’al di là del ponte dove tra resti di una fu ferrovia e carri sgenghi degli zingari l’acqua si stagna e ammorba, lo stordì.