UNA FOTOGRAFIA (1991)

06.11.2020 12:29
Generali e colonnelli stanno ritti sull'attenti, come reclute in addestramento. Così vicini uno all'altro, impettiti, tirati nel viso, seri, se non proprio accigliati. È il loro  modo di festeggiare.
Il colonnello dai baffi rossi sta in seconda fila, fa la conta tra sé di quanti mesi, o, se Dio vuole, di quante settimane, ancora lo separino dal giorno in cui potrà passare in prima fila, tra i generali.
Il colonnello dal segno di mezzaluna sulla guancia sinistra, ricordo d'una ferita subita in una battaglia lontana, dimenticata dai libri di storia, è preoccupato perché nonostante sia tutto teso a non muovere nervo, le sue scarpe seguitano a scricchiolare. Un segno, pensa, della fatica accumulata in tanti anni di servizio, di marce, di battere i tacchi in cambio solo di quel segno di mezzaluna sulla guancia sinistra.
I tempi di preparazione si fanno lunghi: il soldatino incaricato di immortalare gli ufficiali vincitori, vincitori di che non è dato sapere, sembra lentissimo anche nell'estrarre gli arnesi dalla sacca; obbligato sempre a scattare al minimo cenno dei suoi superiori, ora non ha nessuna fretta, il suo mestiere lo conosce a puntino e poi non è proprio il momento di sbagliare, c'è pur sempre la promessa di una licenza: stiano pure lì fermi nel sole ad attendere, i grandi capi.
La bandiera del battaglione è già alta sul pennone al centro della piazza d'armi e l'ordine di stare sull'attenti, impassibili per rendere onore all'insegna, non verrebbe mai, per nessuna ragione, contravvenuto da alcuno.
Il soldatino conosce bene di che pasta siano fatti i suoi superiori e sa che la loro autodisciplina diviene ferrea in simili occasioni importanti e ufficiali.
Il colonnello coi baffi da vecchio sente ronzare sotto al naso una mosca; appena un soffio dal naso per allontanarla. L'insetto, infastidito, vola in alto, ma l'ufficiale sente, sa, che la maledetta mosca continua a ronzare attorno alla visiera rigida del suo chepì. Brutto segno, pensa. In Accademia, da giovane sottotenente, una mosca ronzò a lungo sopra gli armadietti della camerata e poi andò a posarsi sul copricapo di un suo pari grado: aveva scelto la propria vittima. All'indomani il tenentino prescelto uscì a cavallo per una perlustrazione prevista dai piani d'una delle solite esercitazioni. Su un piccolo dosso la bestia, nitrendo forte, s'impennò scaraventando a terra il giovane che dopo aver battuto il capo contro un masso, l'unico nel raggio di chilometri di prato, rimase immobile nel suo sangue. In Accademia si attribuì la colpa a una mosca volata nella frogia destra del cavallo. Il colonnello coi baffi da vecchio vorrebbe allontanare la mosca dal suo chepì: non può, deve star fermo, tutta colpa del maledetto soldatino tiratardi.
Questi, dal canto suo, continua a predisporre meticolosamente i propri attrezzi, estrae dalla sacca il cavalletto, ne accarezza il marchingegno dell'alzo e con lentezza, che sembra esasperare più d'uno degli alti ufficiali già in posa, lo pone in mezzo al piazzale. Poi da un’altra sacca estrae una fiammante reflex, la fissa sul cavalletto, due o tre aggiustatine ulteriori all’alzo. Poi avvicina l’occhio al mirino e, con estrema lentezza aggiusta le ghiere dei tempi e della aperture. Infine il soldatino estrae dalla tasca della divisa il flessibile che collega con esasperata calma alla reflex ben fissata sul cavalletto.
Il generale dai capelli bianchi pare mal tollerare l'attesa del benedetto clic, vorrebbe azzardare un passo in avanti, disertare i festeggiamenti; non gli è consentito, lui stesso se lo vieta e non solo per la bandiera alta sul pennone; teme che il colonnello dai baffi rossi, che sembra calmo in seconda fila,  si dia da fare per sostituirlo immediatamente. Proprio quest'ultimo è l'unico ad accorgersi dell'intimo tremolio che scuote il vecchio generale dai capelli bianchi: i mesi sono settimane, pensa, forse giorni, e, in cuor suo, se ne rallegra.
Il soldatino sistemata la macchina, misura coi passi la distanza tra gruppo e cavalletto, ripete l'operazione ben tre volte, in un senso e nell'altro e alla fine, di quell’andare e venire dà l’ultima aggiustatina alla ghiera di tempi e aperture.
Il generale con gli occhiali neri si ritiene il più fortunato del gruppo: dietro le lenti scure può almeno muovere gli occhi. Non un granché, ma pur sempre un movimento, impercettibile che sia, negato agli altri. Fissa il soldatino che armeggia attorno ai suoi strumenti. L'occhio scivola sull'asta della bandiera, s'arrampica fino in cima, poi di nuovo giù sul soldatino. Non c'è altro da guardare. Si accorge che gli manca qualcosa: soldatino, bandiera, di nuovo soldatino e bandiera, nient'altro: a lui, che è stato in mezzo mondo, quella lunga attesa gli ha rubato la memoria del paesaggio, non vede altro che bandiera sul pennone e il soldatino che non si appresta mai a scattare. Gli manca, quasi fosse all’improvviso, il paesaggio o meglio la memoria di tutti quei paesaggi che in sella a un cavallo o in cima a un mezzo corazzato aveva visto per primo, davanti ai suoi battaglioni. Al generale con gli occhiali neri manca per lo meno un qualcosa di diverso su cui possa puntare lo sguardo al di là del pennone con la bandiera, al di là del soldatino. Un  pensiero, che sa di macabro, lo prende nel capo e poi scende al petto. Il generale con gli occhiali neri crolla a terra mentre il soldatino preme il pollice sul tasto del flessibile.