TEATRO CARCANO/I SUOCERI ALBANESI

02.03.2018 08:58

I suoceri albanesi al Carcano

… quando regia e attori fanno teatro”…

 

“I suoceri albanesi” ha un titolo, o meglio un sottotitolo - “Due borghesi piccoli piccoli”- ingombrante e soprattutto fuorviante. La commedia leggera, in scena dal 13 al 24 gennaio al Carcano, non ha nulla a che vedere col romanzo di Vincenzo Cerami e la successiva rielaborazione cinematografica di Monicelli, “Un borghese piccolo, piccolo”. Sgomberato il campo da qualsivoglia tentativo di impossibile raffronto, “I suoceri albanesi” rimane quello che è: un bell’esempio di teatro d’evasione, frizzante e veloce. Com’è del teatro d’evasione, i personaggi, ed è giusto che sia così, non sono “scavati” ma rimangono caratteri stereotipati e la storia si fa semplice, comunicativa, immediata. I problemi e i personaggi del vivere quotidiano ci sono tutti: dalla difficoltà d’essere politically correct di un assessore, per giunta di sinistra, ex figiciotto (il protagonista), una moglie chef dalle macroscopiche idee e dalle microscopiche porzioni, una figlia affetta da smartphonite acuta che vive solo per insultare il padre, un’amica di famiglia erborista maniacale, in analisi continua e in cerca vana di un compagno, un attaché militare logorroico, forbito, supereducato e spaccamarroni. E poi i due esilaranti fratelli albanesi idraulici, chiamati a ristrutturare il bagnetto della famiglia dell’assessore, con le loro storie di gran faticatori e una ben calcata cultura razzista del luogo comune “gli zingari che rubano e i negri scansafatiche che non fanno nulla”. Del vivere quotidiano gli ingredienti ci sono tutti, ma abbozzati come i personaggi. Aggiungi una storiella d’amore tra l’adolescente e il giovane albanese, con tanto di gravidanza e matrimonio in Albania, con i genitori a giostrarsi tra insorgenti preconcetti e paure, respinti o aggirati, e la commedia d’evasione e due ore di allegrìa spensierata sono confezionate.

Se il contenuto è quello che è, la confezione è brillante. Il regista, Claudio Boccaccini ha fatto del testo di Gianni Clementi una macchina perfetta per tempi e ritmi veloci, sottolineati e supportati dalla struttura a quadri. Una macchina oliata, rodata al punto giusto (molte le repliche e le piazze alle spalle), ha aggiustato, riparato, glissato sbavature d’autore.

La compagnia attoriale affiatatissima: Francesco Pannofino ed Emanuela Rossi in grande spolvero comico; Elisabetta Clementi, la figlia Camilla con smartphonite acuta, irritante e scorbutica quel giusto che basta a delineare il carattere dell’adolescente non rieducabile che è nell’immaginario collettivo dei tanti miseri soloni del pensiero contemporaneo; Silvia Brogi, Benedetta, l’amica di famiglia, e Andrea Lolli, il saccente colonnello, entrambi abili a divertire e a tenere in piedi personaggi “liquidi”; infine i due “albanesi” che con la bravura soprattutto dell’eccellente Maurizio Pepe (esilarante l’esposizione del preventivo per il rifacimento del bagno di servizio) riescono a far passare in secondo piano la caratterizzazione banalizzante, se non cattiva, dell’immigrato albanese in Italia: vi riescono soprattutto nel rifugiarsi in un gramlot giocoso tra il romanesco e un gutturalslavo immaginario. Una parlata che per assonanze gutturali ricorda molto quello delle nostrane vallate alto lombarde e forse proprio per questo ci fa ancora più ridere.

La trovatina del selfie finale della compagnia col pubblico plaudente alle spalle è gustosa fin quando non scopri che l’occasionalità della foto di gruppo è un’occasionalità pianificata e ripetuta in ogni città. Un po’ troppo marketing per essere teatro. Peccato per questo piccolo inciampo finale perché regia e compagnia attoriale ci avevano messo di molto per confezionare e ottenere un lavoro pulito, filante, gradevole, senza dubbio divertente, su un testo a parer mio un po’ sciapo in confronto ad altri testi di Clementi.

 

Adelio Rigamonti

 

 

Il giudizio di Teatro a Milano:

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