UN BARATTO

Bucco, con la mano affusolata, dicevano avesse le dita da pianista, accarezzava la lettera di raccomandazione. Questa, piegata accuratamente in due in una busta azzurra, occupava buona parte della tasca destra della giacca. Mai aveva pensato che per trovare lavoro avrebbe avuto bisogno d’una lettera di raccomandazione. In realtà alla lettera ci aveva pensato sua madre.
Aveva deciso tutta da sola confusa nella preoccupazione che quel figlio lungagnone continuasse a chiudersi in camera a leggere libri e ad ascoltare quella musica americana, di cui lei non riusciva neppure a ricordare il nome, qualcosa di corto che continuamente le sfuggiva, le scivolava via dalla mente e dalla lingua. Un lavoro, ne era convinta, avrebbe schiodato Bucco dai libri e dalla musica e poi sia libri sia dischi costavano un monte e toccava a lei raggranellare soldi, mance su mance nel ristorante micragnoso dove lavorava, per soddisfare i desideri del figlio, al quale, nonostante tutto, voleva un altro monte di bene. Quindi le tornò buono quel vecchio avvocato, tutti i pranzi seduto nella sala piccola accanto alla stufa, che conosceva uno studio notarile la cui titolare cercava un buon giovane d’ufficio, che, a tempo perso, sbrigasse qualche piccola incombenza come condurre, sull’ora del pranzo, il cane a passeggio.
Benché la cosa non gli andasse del tutto a genio, soprattutto per quella faccenda del dover accompagnare il cane a passeggio sull’ora del pranzo, Bucco si risolse ad obbedire alla madre se non altro per guadagnare quei quattro soldi per acquistare libri e dischi.
Il gesto teso ad accertare la presenza della preziosa lettera era una sorta di tic, se non altro per il frequente e meccanico ripetersi. Il tocco, quasi uno sfioro, gli concedeva quel tot di sicurezza di cui  aveva bisogno. “In momenti simili forse avrei davvero bisogno della mamma accanto – pensò, spegnendo il tutto in un sorriso malinconico e concludendo fra sé -, ora c'è solo questa busta”.
La prima volta che conobbe il lavoro, allora si trattava di quello altrui, gli fu affianco il nonno. Fu nell’oscuro di un’officina dalle pareti annerite, là dietro il cimitero grande, quello dei poveri.  La guerra passata da poco, che ancora in famiglia si subivano i suoi sofferti strascichi. Nell'officina si costruivano becchi per cucine a gas. Venivano rifiniti a mano, martellandoli. Fu la prima volta che conobbe l’incudine, anche l’ultima. Il fabbro reggeva con lunghe pinze il becco nero: due colpi secchi su questo e tre morbidi, una specie di saltellìo di rimbalzo, sul pianale. Due. Tre. Due e, poi, tre. Una questione di ritmo. Il braccio si tendeva innervandosi nei due colpi sul becco. Si rilassava nei tre sull’incudine. A Bucco sembrò che la danza di quei movimenti  sfuggisse al nonno. Questi, infatti, era tutto intento a parlare col fabbro d’altri tempi e di leoni visti da vicino ai margini d’un deserto lontano nel tempo e nello spazio.
Solo una questione d’attimi separava Bucco dal colloquio preliminare alla desiderata assunzione: non era certo il momento per pensare ai leoni. “Certo”, pensò ed affrettò il passo.
I leoni, tuttavia, erano lì. Rossi, con la criniera infuocata, gli si fecero attorno. Bucco non li temeva. Li aveva ereditati dal nonno: il mese, freddo, dicembre, anni addietro, quando il padre di suo padre decise di andarsene per un malore improvviso mentre in una macelleria, di quelle buone, acquistava la carne per l’arrosto della domenica.
Alla compagnia dei leoni era abituato. Li aveva condotti per mercati rionali e centralissimi magazzini, razzolavano tra merce, scampoli e prêt-à-porter. Li nutriva con immagini del quotidiano e i bestioni, per riconoscenza si accoccolavano ai suoi piedi mentre leggeva ascoltando musica.“I leoni non sono animali schizzinosi. Qualche volta, tuttavia, stancano” aveva pensato più volte Bucco.
In una di quelle volte tentò il baratto. La Donna Dal Collo Bianco stava, gambe penzoloni, sul tavolino estraibile d’una carrozza ferroviaria di seconda classe. Il treno marciava a Est, contro il Sole. La Donna Dal Collo Bianco indossava una corta gonna blu, un maglioncino rosso; due orecchini spaiati: un sole a destra, una luna a sinistra. Bucco fu colpito soprattutto dal bianco lucente delle lunghe gambe che di molto sopra il ginocchio sparivano nel blu della corta gonna. Anche quella volta aveva accanto i leoni del deserto lontano.
Li accarezzò mentalmente: altro non poteva. Improvvisa fu l’idea del baratto: i leoni in cambio del permesso di far scivolare, un soffio appena, la sua mano lungo quelle gambe lucenti. la Donna Dal Collo Bianco rifiutò cortesemente e colse l’occasione, nel buio d’una galleria per cambiare di scompartimento.
Di quanto potesse ritenersi fortunato per quel rifiuto Bucco se ne accorse ben presto, se non altro, per la gran compagnia che quei bestioni rossi gli facevano ogni qualvolta si sperdeva, per  qualche suo intimo accidente, annoiato o turbato. Di sperdersi a Bucco capitava assai di sovente.
La mano affusolata accarezzò la lettera di raccomandazione che, piegata accuratamente in una busta azzurra, occupava buona parte della tasca destra della giacca. La pinzò con le dita e la porse alla persona che gentilmente lo accolse per condurlo alla stanza del colloquio.
Qui un’altra Donna Dal Collo Bianco, che assai da vicino gli ricordava quella incontrata nella carrozza ferroviaria di seconda classe, gli sorrise da dietro uno scrittoio. Una luce di taglio regalava lustrini alla luna di latta che le pendeva dall’orecchio sinistro. Il colloquio fu breve e positivo. Alla fine la Donna Dal Collo Bianco, da un cassetto dello scrittoio, estrasse il contratto di lavoro. Poi raccolse da terra qualcosa che Bucco non riuscì a distinguere e lo stipò, con qualche e apparente fatica, in un altro cassetto.
Bucco, uscendo dalla sala del colloquio, lesse e rilesse il contratto. Improvvisamente, chissà per quale intimo accidente tutto suo, si sentì sperso, annoiato, turbato. Ci fosse stato lì accanto qualcuno, magari il nonno se non proprio la mamma. Sentì il bisogno dei leoni. Li pensò a più riprese. Quelli, i rossi bestioni dalle criniere infuocate di un deserto lontano nello spazio e nel tempo, non si fecero vivi né allora né dopo.
Il giorno due, il mese settembre in cui conobbe il lavoro, il proprio. Un lavoro che non sarebbe stato neppure male se non per quel fatto di dover condurre, sull’ora del pranzo, il cane a passeggio.