TRUCIOLO

Bucco dopo tanti anni, senza una precisa ragione, decise di tornare a visitare il paese di sua madre. Un borgo tutto tafani e noia nel quale aveva vissuto gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza. Pochi i Parenti rimasti, solo cugini di quelli che sono auguri a Pasqua, Natale e basta.
Bucco per prima cosa si recò nella piazza del mercato. Lì un tempo, per la Madonna della Neve, patrona del posto, ci arrivavano le giostre e le baracche di scalcinati Luna Park. Lì, sempre per i giorni della festa patronale, qualche rara volta ci arrivava il circo. Gran daffare davvero chiamare circo quella roba là: senza tendone, quattro sedie messe in tondo attorno a due clown senza arte né parte e a un immancabile vecchio lanciatore di coltelli.
Il paese sembrava essersi impoverito col passare degli e la noia di un tempo aveva fatto ragnatele in tutto e per tutto: abbassate definitivamente le saracinesche dei negozietti che vendevano di ogni cosa, perché i proprietari, oltre a quella naturale, avevano conosciuto la morte per inedia per via di quel grande centro commerciale tirato su lì vicino al paese.
Bucco si sedette su una panca, proprio lì nei pressi dello svincolo dell’autostrada che dal mare tirava al capoluogo. Dopo poco vide una ciurma di ragazzotti, chi in bicicletta chi a piedi e uno in monopattino, che dava la baia con gran chiasso a un omino tutto curvo che sembrava avanzare a fatica verso la panca su cui sedeva Bucco. I ragazzotti gridavano berciando quell’omino con i più coloriti insulti. Nel tutto fu possibile udire nitidamente il grido dello sbrindellato in monopattino “Oh truciolo dove slazzeri la tua segatura”.
Non appena l’omino si avvicinò alla panca, i ragazzotti presero il ponte che scavalca l’autostrada e sparirono.
A Bucco parve di ricordarsi un poco del viso dell’uomo che gli si era seduto affianco. Quest’ultimo subito gli porse la mano e gentile chiese “Come stai Bucco gli è di un monte che non ti vedo qui al paese, pur’io ci son stato via trent’anni”.
Di certo Bucco pur ricordando, seppure in modo sommario, le sembianze dell’uomo che gli stava vicino di certo se ne era scordato il nome e allora decise di chiamarlo Truciolo, ma senza nessuna intenzione, neppure minima, di recare offesa a quell’omino che quasi senza farsi notare aveva messo serrata tra i piedi una valigetta di cuoio rigido, di quelle che non si vedono più, sui fianchi del misero bagaglio vi stavano incollate piccole etichette scolorate con impressi nomi di località di mezzo mondo o forse del mondo intero.
Poiché Bucco, tutto preso ad aggirarsi nei ricordi per dare un nome all’uomo, non faceva altro che sorridere senza dir parola, Truciolo cominciò a raccontare di sé.
 
“Ma si che mi parve una gran stramberia la nave in piazza. Era sabato, il terzo del mese di giugno del millenovecentosessantatré. Tu eri su ancora in città. La nave, dopo aver tranciato  con l'alto della prua i rami dei pioppi che costeggiavano per lungo tratto la provinciale, andò quasi ad arenarsi con­tro il campanile della piazza della chiesa.
Furono sirene, strilli, risa, ruggiti e tremendi barriti a stupire dap­prima la marmaglia, che d'abitudine stava in ozio sulle panche di sasso della piazza, e poi il resto degli abitanti del paese, richiamati dalle case e dai campi proprio da quel gran frastuono: tutti a far crocchio attorno alla nave che ruggiva.
Di certo sarebbe piaciuto anche a te star lì a stupirti”.
Truciolo riprese un poco fiato, quasi aspettasse una qualche reazione da parte di Bucco, ma questi già si vedeva la nave che ruggiva entrare nella chiesa a rovesciar santi e altari e desiderava continuare a perdersi nel racconto, con un gesto della mano fece segno al’uomo che gli era accanto di proseguire.
“Un grande camion ros­soblù  - riprese Truciolo - aveva trainata la nave fin lì su sedici  enormi ruote che avevano permesso la navigazione per asfalti e sterrati a quell'insieme di ferro, legno, cartoni tutto colorato. Dalla cabina scese un omino dal viso ag­grinzito, con indosso una tuta gialla lercia e sdrucita.
- Siamo il Circo Florian's - gridò l'omino, appena messo piede a terra. Un circo davvero, non di quelli che avevamo visto insieme nei giorni di sagra qui nella piazza del mercato, ti ricordi neh Bucco, e si faticava davvero chiamare circo quella roba là: senza tendone, quattro sedie messe in tondo attorno a due clown cialtroni e a un vecchio sdentato lanciatore di coltelli.
Fu in quella occasione che conobbi il circo, di quelli veri dico, avevo quattor­dici anni. La mamma sempre in casa a curarsi dei tre fratellini. Non an­davano an­cora a scuola, nati per sbaglio, concepiti per ozio nelle notti estive tutte grilli, quasi senza piacere.Il babbo al campo, dall'alba al tramonto, steso nel fango, a te­ner ritti con lo spago i garofani, la giacca, quella buona, l'unica, ap­pesa alla porta d'ingresso di quell'insieme di legni e teli di plastica te­nuto su alla meglio e che in famiglia chiamavano serra.
Io aveva smesso di studiare da un anno, finite le medie. Non per mancanza di voglia - che quella, anzi ne avevo un monte, forse anche più di te! - ma cinquanta chilo­metri e un po' per recarsi tutti i giorni a Firenze a fine mese erano di tanti soldi in bus e panini a disnare, un lusso che mamma e babbo, con gli altri tre da tirar su
non potevan per­mettersi.
 
Al lavoro dei campi  preferii un posto di garzone nella bottega dell'Anna: un paio d'ore al giorno, giusto il tempo per tirar di cencio dietro e davanti al banco e per sostituire sugli scaffali le latte vuote di tonno sot­t'olio e di acciughe sotto sale.
Terminato il lavoro nella posteria andava ad aiutare il Beppe: aggiu­stava con toppe le ruote forate delle biciclette: con mastice e gomme mi era impratichito per bene e i clienti erano con­tenti del mio lavoro.
Quando ero libero dagli impegni di lavoro mi piaceva andare a servir messa, quando eri qui ci venivi anche tu, oh miscredente che non se’ altro ora, m’han detto. Ci si andava a servir messa, almen io, per la ragione che smessi i panni, don Bellini, mi portava in cano­nica e lì avevo ogni agio per scegliermi i libri che vo­levo dalla piccola biblio­teca parrocchiale. Leggeva fino a notte fonda qualunque cosa”.
Truciolo prese fiato e poi chiuse di fretta: “Fu il lunedì successivo, dopo aver assistito a due spettacoli del circo nella piazza del mercato, che m'imbarcai  sulla nave finta senza dire nulla a nessuno”.
 
Bucco era affascinato dal racconto, forse avrebbe voluto dire qualcosa anche lui, ma non ne ebbe il tempo poiché Truciolo subito riprese.
“L'odore del circo, una volta che ti è entrato nella pelle, non ti molla più. Fu questa la prima cosa che Osiride, detta Isi, la grassona dal viso da bambina, mi disse quel lunedì di giugno del sessantatré, il giorno in cui voltai il culo a famiglia e paese.
“Della puzza del circo, dell’odore che ti prende dentro – prosegì Truciolo – me lo sono sentito rammentare più volte. Una volta fu proprio il vecchio Florian Gildo, padrone, direttore e domatore, indiano di Pavia con tanto di tur­bante, di Bombay, unico elefante del circo. È inutile che ti lavi, mi disse, con l'ossessione della puzza”.
 
Truciolo confidò a Bucco che il padrone l'aveva sor­preso, nudo, a tuffarsi ostinato in un piccolo torrente accanto alla strada durante una delle soste abituali e frequenti della nave du­rante i trasferimenti da paese a paese.
Poi Truciolo, forse tradendo un poco di tristezza, riprese: “All'odore del circo non si sfugge, non si può, me lo disse anche Romero, lo spagnolo di Ferrara, che ogni sera lanciava coltelli attorno al corpo di Isi. Romero morì, rotto l'osso del collo, accartocciato ai piedi di un palo della luce  mentre in moto correva a donne su un lungomare della Versilia nel luglio del sessantacinque.  Quella della morte per eccesso di velocità, per rag­giungere un'amante nella pineta di Mi­gliarino, fu la versione fornita dai carabinieri. La verità fu gelosa­mente custodita da Gildo, Isi e da me stesso: Romero correva nella notte, nell'aria frizzante della costa, per lasciarsi alle spalle l'odore del circo”.
A Bucco parve di scorgere una lacrima, piccola piccola, rigare la guancia destra di Truciolo, che, ponendo la mano destra sul suo ginocchio, riprese “Già dopo tre giorni l’odore del circo mi entrò dentro, pensai che fosse per aver passato tra notti accucciato sulle carni molli di Isi, il capo perso tra i suoi seni enormi; Bombay lì vicino. Poco dopo mi convinsi che l’aver messo il capo tra le tette di Isi non era certo l’unico motivo e di certo neppure il più importante per cui l’odore del circo era penetrato in me”.
Truciolo continuò raccontando a Bucco che dopo la morte di Romero, il vecchio Florian volle che imparasse a lanciare coltelli attorno al corpo di Isi. Quindi Truciolo fu lanciatore di coltelli, poi anche acrobata e clown. Poi, aprendosi in un sorriso bonario soggiunse: “Ora permettimi ti faccio ridere sempre con la faccenda dell’odore del circo. Su piazze piccole il circoFlorian’s s’arrangiava più che bene e perciò il padrone col turbante decise di allargare la troupe. Senti bene che qui c’è da ridere… fu messo un annuncio sul giornale. E già due giorni dopo era una gran fila attorno al camion nave. C’era di tutto: antipodisti, sai quelli che van sulle mani, una ragazza che danzava col ventre, un’altra, bellissima, contorsionista di Massa,e poi domatori o presunti tali e via, via tanti altri. Scartati di fretta i domatori perché d’animali d’addestrare c’era solo Bombay e per quello c’era già l’indiano di Pavia, si passò all’esame degli altri. Florian aveva un metodo tutto suo per decidere le assunzioni, e qui, per chi come te non è del circo, c’è proprio da ridere… Florian infatti non faceva nessun provino ma usmava e solo quando individuava in qualcuno l’odore forte del circo, assumeva quel qualcuno e gli altri a casa”.
Bucco sorrise e chiese se qualcuno fu assunto davvero e Truciolo fu pronto a soddisfare subito la sua curiosità: “Certo fu assunto un Osvaldo giocoliere, due acrobati di Mestre ribattezzati jugoslavi e la bella contorsionista di Massa, Giovanna Prati. Florian le cambiò nome in Irina Pavlova. E io cambiai letto”
Poi Truciolo riprese a dire dell’odore: “Quello del circo, un odore di stallatico, un afrore omogeneo agli uo­mini, alle cose, agli animali rende umano il bestiale e bestiale l'u­mano. E anche gli spettatori più attenti e fedeli, quelli che alle casse dei circhi fanno ressa e calca per guadagnarsi i posti prossimi alla pista in attesa delle acro­bate ballerine, non sanno nulla della puzza, dell’odore, del profumo del circo”.
Bucco chiese a Truciolo se ancora lavorasse nel circo.
“No, che dici?, sono in pensione da molto e son tornato qui al paese dove ebbi il primo incontro col circo. Non so neppure dove sia andata la Pavlova di Massa, ma il profumo del circo c’è l’ho ancora dentro e quando me lo sento affievolire allora…”.
Truciolo si inchinò a raccogliere la valigetta di cuoio rigido che aveva tenuto stretta tra i piedi. La pose sulla panca tra lui e Bucco, la aprì e i trucioli di segatura che conteneva emanarono puzza, odore, profumo di circo. Veloce ne estrasse una piccola manciata e, come fosse un rito a lui ben conosciuto e ripetuto a iosa, aprì la mano sopra la testa e trasse un gran respiro di sollievo. Poi ne prese un’altra, forse un poco più ricca, e senza concedere nessun attimo per una minima reazione battezzò con quei trucioli il capo di Bucco. Poi di fretta rinchiuse la valigetta, s’alzò e salutando Bucco alla mano, sì allontanò.
Bucco, dopo essere rimasto impietrito per quell’inatteso battesimo, scrollò il capo a più riprese e i trucioli si sparsero ovunque sopra e dentro agli abiti. Bucco sentì l’odore del circo penetrargli dentro e alzandosi per lasciare la piazza gli parve di scrogere l’imponente Isi dalle grandi tette a cavalcioni del parapetto del ponte che scavalcava l’autostrada che dal mare tirava al capoluogo…