UN AMORE

Bucco si perse, meglio sarebbe dire scomparve, un lunedì a sera. Pioveva. La pioggia gli affaticava passo e respiro. Le vie, sebbene la distanza tra palazzo e palazzo fosse notevole, sembravano essersi ristrette. “Sarà per la pioggia, per un’impressione ottica dettata dalla pioggia stessa”, si disse Bucco.
Comunque davanti ai suoi occhi cominciarono a pararsi, sempre più fitti, strettoie e ostacoli. Indossò la piazza come fosse una giacca più stretta del giusto. Si accorse dell’affiorare di alcune grinze di memorie:  un palmo di sotto alla cucitura della manica sinistra, un poco verso il centro, e furono, subito, ostacoli dell’infanzia a pararsigli incontro.
La carriola, là in campagna dai nonni materni,  straboccante di fieno, zuppo zuppo d’acqua, che pesava un monte di fatiche lo spostarla. Bucco cercò d’aggirarla, ma gli fu impossibile perché i palazzi si erano appressati l’uno all’altro, ai lati della carriola, a una distanza tale di non concedere il passo. Da ragazzo, certo, nonostante il peso, avrebbe tentato; magari puntando i piedi a qualche radice affiorante dal terreno, inarcandosi tutto a braccia tese, avrebbe provato. In alcuni casi ci era anche riuscito. Quel giorno, no.
Per l’età, certo,  ma anche per via del malanno al ginocchio, che si trascinava da mesi, e per quella sofferenza alla schiena, che da fastidio era diventato intenso dolore, forse per l’essere stato all’impiedi, quasi ininterrottamente, per due giornate in quella scuola un po’ sderenata, in cui, forse un segno del destino “cinico e baro”, aveva cominciato a insegnare quasi quarant’anni addietro.
L’avevano scelto, o meglio si era dato, come rappresentante di lista durante le elezioni politiche per il rinnovo del Parlamento. Le televisioni, con le loro immagini puntinate, una sorte di malanno inevitabile per l’improvvisata installazione degli apparecchi, annunciarono subito, proiezioni e altro, ciò che sarebbe stato l’esito delle consultazioni: un disastro.
Di disastri Bucco ne aveva già conosciuti a mucchi: familiari, domestici e ideologici. “Non sarà questo, benché batosta grossa, a fermarmi”, pensò Bucco cercando di respingere con le braccia tese e palme spalancate, quasi da farsi male alle dita,  i muri delle case, che ormai era giunte quasi a rinserrarlo del tutto.
In senso opposto, ormai poco distante, avanzava l’Uomo Matto che era solito parlare di foche del Canada. A Bucco era noto come l’Uomo Matto fosse stato dimesso, da poco, dalla sezione psichiatrica dell’ospedale di zona. Solo, col morbo di Parkinson, in stato avanzato, che lo scuoteva tutto come fosse una carta leggera per aquiloni abbandonata con incuria su un tavolo al volere del vento.
L’Uomo  gli chiese una sigaretta. “Ho solo sigari, se vuole” disse Bucco con una gentilezza tirata fuori da chissà dove e del tutto inusuale per lui. “No, mi fa male quella roba lì così forte” rispose l’Uomo Matto. Si salutarono.
Per Bucco e l’Uomo non fu impresa di poco conto il riprendere il cammino in senso opposto l’uno dell’altro. Nonostante ciascuno s’appiattisse il più possibile ai muri, il contatto fu inevitabile: un tremito incontrollabile cominciò a scuotere Bucco.
Nonostante che l’avvicinarsi spontaneo dei palazzi sembrava essersi fermato, o per lo meno attenuato, di tanto in tanto, nel proseguire il cammino difficoltoso, l’abito di Bucco cominciò a sfregare contro malte e intonaci, a sdrucirsi. Piccoli brandelli si stoffa blu si attaccarono come decalcomanie alle pareti della case. All’altezza del civico tre fu concesso  a Bucco un po’ di respiro: il portello d’ingresso era appena socchiuso, fu sufficiente una leggera spinta per entrare nell’androne.
Bucco in quel momento si accorse come solo le vie e le piazze si fossero ristrette, Le case e gli interni di esse, a partire dai cortili, no.
Si immaginò l’anziano signore, quello del terzo piano, appena seduto in poltrona davanti al televisore; la moglie accanto. Il maestro di sax tenore intento a suonare a memoria. La giovane, quella belloccia del quinto piano, riporre l’ultimo piatto nella lavastoviglie. Il signore al quarto piano occupato nel risolvere parole crociate a schema libero; Sette orizzontale “Grande danneggiamento”, otto lettere. Ogni appartamento aveva mantenuto le sue dimensioni, i corridoi la loro primitiva larghezza, la carte da parato avevano ancora i brutti fioroni azzurri distanziati tra loro come sempre. L’interno, l’intimo era rimasto integro. Al di fuori, benché i muri dei palazzi avessero smesso di muoversi uno verso l’altro, c’era ben poco da respirare.
Pioveva. La pioggia filtrava fitta tra i tetti sporgenti, che restringevano ancor di più la vista del cielo ormai nero. Bucco era ancora scosso dal tremore, che gli era stato trasmesso, nel contatto obbligato, dell’Uomo Matto.
Rientrò nell’androne del civico tre. Si spinse oltre. Oltrepassò una porta a vetri colorati. Si trovò in un ampio cortile, molte le finestre accese che penzolavano nella penombra, qualche luce riflessa nelle pozzanghere. A piano terra, un solo scalino li separava dal suolo mattonato del cortile quattro grandi locali usati come laboratori, chiusi. Apparentemente tutti chiusi.
Così tanto per fare, Bucco tentò, a caso,  la maniglia di uno di quei laboratori. “Clic”, la serratura non oppose resistenza. Un odore misto di gomma, di mastice, di vernice a smalto gli investì le narici. Fu facile trovare l’interruttore elettrico. Una lampadina a penzoloni rischiarò alcune biciclette nuove e altre usate appese alle pareti. In quattro carrelli da supermercato stavano pedaliere, sellini, seggiolini per trasporto bambini, campanelli. In un angolo dello stanzone camere d’aria ammonticchiate. Bucco provò un campanello. “Drin”.
Posso?”. La domanda, da dietro le spalle colse Bucco all’improvviso. Una Ragazza Dal Viso Dolcissimo stava sulla porta.
Fuori non si respira. Sembra che le vie mi si chiudano addosso”, disse La Ragazza Dal Viso Dolcissimo.
Prego, qui nonostante si sia al chiuso si respira meglio”, rispose Bucco. Poi proseguendo di per sé, ma ad alta voce, “Quale gradevole invenzione un laboratorio di biciclette”. La Ragazza Dal Viso Dolcissimo aveva i capelli lunghi, giù per le spalle, la pioggia le aveva appiattito certamente il loro naturale scarruffo.
Bucco aveva già intravisto quella giovane donna. Scrutatrice seggio 3412, al banchetto dei registri per i maschi, imponente nel ritaglio della porta dell’aula. Visibile ogni qual volta Bucco fosse passato, una sbirciata, lungo il corridoio durante le operazioni di voto.
La donna era rimasta sulla porta. “Posso?” richiese.
 “Entri pure, sono abusivo anch’io”, fece di rimando Bucco.
La giovane donna sorrise e aggiunse: “E chi non è abusivo oggi”.
Forse meglio dire scomparsi”, fu pronto Bucco a continuare.
La Ragazza Dal Viso Dolcissimo sorrise di nuovo.
Non è un gran posto questo, poco accogliente, ma s’accomodi. Non vorrà rimanere fuori con questa pioggia…”, rispose con gentilezza  Bucco.
La donna fece qualche passo in avanti. “Posso accomodarmi lì?”, chiese indicando la grande catasta alla rinfusa delle camere d’aria.
S’accomodi - acconsentì Bucco - Tutte queste biciclette lì a suggerire fughe, ma s’accomodi pure”.
La giovane donna si sedette nel mezzo del mucchio delle camere d’aria. “Che disastro!”, esclamò.
Bucco pescò dal carrello da supermercato un campanello. Scelse il più colorato, quello che gli parve il più degno d’essere considerato una sorta d’omaggio per la giovane donna. “Drin”.
 “Grazie”.
“Drin”.
Bucco le si sedette accanto sulla pila sconnessa di camere d’aria. Sembrò che sprofondassero un poco.
Era nell’aria che la cosa finisse così, ma proprio così…” disse uno dei due.
Per via del peso dei due corpi alcune camere d’aria cedettero all’ingiù. Lo slittamento fece sì che le due bocche s’avvicinassero. Si baciarono a lungo, le lingue spinte con forza. Senza smettere di baciare la giovane donna cominciò a spogliarsi. Bucco fece altrettanto. Si amarono dandosi del lei. Fu un amplesso lungo, liberatorio.  Parve loro di udire le note suonate a memoria dal maestro di sax tenore. Si rivestirono.
Scelsero, tra quelle appese ai muri dello stanzone, due biciclette. “Cerco una Legnano nera, mi ricorda la gioventù”, disse Bucco.
Per me non fa differenza”, aggiunse la giovane.
Forse meglio tirarsi addietro due seggiolini per il trasporto dei bambini”.
Con le biciclette condotte a mano, attraversarono il cortile. Minore il numero delle finestre illuminate. Ancora luci riflesse nelle pozzanghere. Oltrepassarono la porta a vetri colorati. Spinsero le biciclette sulla passatoia un po’ sgualcita per non lasciare tracce lorde sui marmi dell’androne. Uscirono dal numero civico tre della piazza.
I palazzi avevano cominciato ad allontanarsi l’uno dall’altro, non più una giacca stretta, piuttosto un buon cappotto di cammello, di quelli esposti nelle vetrine di lusso del centro. Uno affianco all’altra girarono attorno alla piazza più volte. Smisero di darsi del lei.
 “Qualcosa da metterci sul seggiolino lo troveremo”, disse La Ragazza Dal Viso Dolcissimo.
Svoltiamo nella via piccola, ci sarà qualcuno con cui parlare”, aggiunse Bucco.
In fondo alla via li attendeva l’Uomo Matto, che era solito parlare di foche del Canada. Aveva smesso il tremito. “C’è tutto un tempo da inventare”, disse.